Analfabetismo di ritorno, bias di conferma, paura del futuro, ricerca di capri espiatori, propaganda interessata e monetizzabile, destabilizzazione globale: sappiamo ormai tutto sul circolo vizioso delle fake news. Tutto, tranne come uscirne. Solo una cosa è certa: non sarà facile.

Oppo Pinocchio

La Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha recentemente lanciato l’iniziativa “Basta Bufale”, una petizione/mobilitazione contro le fake news. L’appello coinvolge anche noti e bravi debunker e personalità pubbliche, ma a dire il vero, al di là dell’incitare a una presa di responsabilità da parte di tutti, non si capisce quale scopo finale abbia (ad esempio: le firme a cosa servono? Davvero a dire basta con le bufale?).

Questa è solo l’ultima iniziativa in ordine di tempo contro il fenomeno scoppiato nel 2016 con la Brexit e soprattutto con la campagna elettorale di Donald Trump. La grande massa di finte notizie a favore del neo-presidente Usa è stata a lungo al centro del dibattito, e ha fatto sorgere domande sulla capacità delle informazioni fasulle di influenzare l’elettorato e cambiare le sorti del voto. Quel che sappiamo finora è che, secondo uno studio dell’Università di Stanford, nonostante le fake news pro-Trump siano state condivise per un totale di 30 milioni di volte (quasi il quadruplo di quelle pro-Clinton, c’erano anche quelle), solo una piccola frazione di elettori le ha viste.

Per la verità non è un fenomeno nuovo: negli Usa è circolata a lungo la storia che Obama non fosse americano, ad esempio; qui in Italia la stessa Boldrini e l’europarlamentare Kyenge sono da tempo tra i principali bersagli di notizie false pubblicate da siti specializzati in questo, per non parlare della grande magnanimità di Putin, pronto ad ogni disastro naturale a mettere rubli su rubli a disposizione dell’Italia e coprire così l’inefficienza del governo che, puntualmente, “se ne frega degli italiani in difficoltà”.

C’è poi la questione della propaganda politica, che, se anche spesso contiene informazioni false, è difficile classificare sempre come fake news o prodotto recente di Internet. Questi fenomeni, infatti, non sono nati con la Rete, ma sono stati sempre presenti anche nel giornalismo tradizionale, che ha avuto e ha responsabilità importanti. Solo che, per vari motivi – dal minor numero di fonti d’informazione alle molte meno opportunità di distribuire i contenuti che esistevano un tempo, senza Internet, passando proprio per la perdita di autorevolezza dei giornali tradizionali, che ha a che fare con il loro modo di lavorare – fino a tempi relativamente recenti il tutto passava sotto traccia.

Sono sempre esistiti i tabloid, che però oggi trovano i propri cloni potenziati nei siti di bufale e nuova autorevolezza (sic!) nel momento in cui i giornali seri utilizzano le loro informazioni. Sono sempre esistite le notizie false date dai giornali ‘veri’, come ben racconta Luca Sofri nel libro “Notizie che non lo erano”, che ci offre un ottimo spunto:

Altro che popolo di poeti, santi e navigatori. La realtà è che siamo un popolo a rischio di analfabetismo: 12 italiani su 100, ovvero 6 milioni di persone, non riescono a leggere e a far di conto. E agli altri non è che le cose vadano meglio: se si somma chi ha la licenza elementare e chi quella media, del tutto inadeguate a vivere e lavorare nel mondo di oggi, arriviamo a 36 milioni di concittadini qualificati come ana-alfabeti. Il 66 % degli italiani è infatti considerato un analfabeta di ritorno, con gravi difficoltà a gestire lettere e numeri”.
(La Repubblica, 15 novembre 2005).

In merito ai risultati di uno studio sulla diffusione dell’analfabetismo in Italia, pubblicati oggi sugli organi di informazione nazionali e locali, l’Istat precisa che in base ai dati del censimento della popolazione riferiti al 2001 il numero di analfabeti è pari a 782.342”.
(Nota ISTAT del 15 novembre 2005)

Nel 2005, quando ancora non si parlava di fake news o di epoca post-truth, uno dei maggiori quotidiani italiani, La Repubblica (ma era in buonissima compagnia), scrisse che una rilevazione Istat mostrava come gli italiani analfabeti fossero 6 milioni e che il 66% dei nostri connazionali, non noi ovviamente, era considerato analfabeta di ritorno. Cercando su Google, trovate ancora le notizie negli archivi, mentre trovare la smentita dell’Istat vi costerà un po’ più di fatica. Ma il libro di Sofri offre decine e decine di spunti del genere (alcuni anche molto divertenti, come quello sul “fortissimo Mauro Di Sormano”).

Ma è vero che con la Rete, grazie all’invasività dei social media online nelle nostre vite, il fenomeno si è accresciuto parecchio, con siti ideati appositamente per inventare notizie, distribuirle e monetizzare con le pubblicità. Al di là del fenomeno Breitbart - il network di notizie (false) che fomenta l’alt-right e che è frutto di una chiara agenda politica (non a caso uno dei suoi fondatori, il controverso Steve Bannon, è lo stratega massimo del trumpismo) -, durante le ultime elezioni Usa nei Balcani è nata una specie di Silicon Valley delle fake news, realizzata più che altro da ragazzini, bravi a sfruttare le camere dell’eco dei social media (o bolle) e diffondere lì le proprie bufale, attirando click e relativi compensi per le pubblicità visualizzate. Almeno fino a quando Google non ha deciso di levare d’imperio i propri annunci sponsorizzati dai siti giudicati non attendibili (da noi è capitato al blog di Byoblu, Claudio Messora, ex responsabile della comunicazione del M5S al Senato e in Europa).

Abbiamo citato le camere dell’eco. Già, perché è proprio questo fenomeno sociale, declinato nella nuova realtà dei social media online, a permettere alle fake news di distribuirsi e diventare in qualche modo virali. Il fatto è che tutti noi tendiamo a cercare e mantenere i contatti con chi ha una visione del mondo molto simile alla nostra, e cerchiamo costantemente conferma delle nostre opinioni, condividendo contenuti che vanno nella stessa direzione. Il vero problema nasce quando l’erba cattiva è in condizioni di poter crescere anche altrove, scavalcando le recinzioni o bucando la bolla.

Possiamo dire che questo accade in due occasioni: quando ci sono uno o più contatti comuni tra bolle, oppure – e questa è la situazione più grave – quando i siti di news ‘tradizionali’ vanno a pescare dall’interno delle bolle, contribuendo a spargere i semi su un terreno molto più ampio. Come scriveva Craig Silverman nel report “Lies, damn lies and viral content, “Troppo spesso le testate giornalistiche hanno un ruolo importante nella propagazione di bufale, false affermazioni, rumors dubbi e dubbi contenuti virali, avvelenando in questo modo il flusso dell’informazione digitale. Infatti, alcuni di questi cosiddetti contenuti virali non diventano veramente virali fino a quando i siti di news non decidono di metterli in evidenza”.

È evidente che il fenomeno è più complesso di quanto si pensi, è decisamente amplificato rispetto al passato, e non risolvibile (ri)scoprendo l’amore per il fact-checking. Ma allora come se ne esce? Prima di tutto riconoscendo che non ci sono soluzioni semplici. Chi invoca l’intervento delle grandi compagnie, come Google e Facebook, affinché preparino un magico algoritmo per bloccare la diffusione dei contenuti fasulli o marchiarli come tali in modo che siano riconosciuti, pur facendolo in buona fede, sceglie la strada sbagliata. Un algoritmo simile non c’è, e non è nemmeno auspicabile.

Demandare in toto la responsabilità di selezionare cosa sia vero o falso a due grandi player della distribuzione delle informazioni è un gioco troppo rischioso per la libertà e per la salute stessa dell’informazione; discernere per mezzo di automatismi e criteri logici tra una fake news, una notizia semplicemente sbagliata (capita), un contenuto di propaganda e una notizia satirica è quasi impossibile. In un intervento sull’Agi, il ricercatore Walter Quattrociocchi spiega che “il problema delle fake news è qualcosa di molto più vasto e articolato. Non è una questione facilmente riconducibile a vero e falso. Riguarda invece il rapporto con le narrazioni e la fatica del sistema informativo nello scenario dei social. Di nuovo si ritorna alla centralità del confirmation bias. Piano piano ci stanno arrivando tutti”.

E probabilmente su tutto questo gioca un ruolo non banale anche il clima di crisi e di relativa paura per lo sgretolamento del proprio mondo che, come mostrato in vari interventi nella monografia di Strade di gennaio e febbraio 2017, se è un fattore importante per la rinascita del protezionismo, lo è anche per la fruizione dell’informazione, per gli stessi motivi.

La via d’uscita implica, per necessità di cose, un ripensamento globale delle tecniche, degli investimenti, delle narrazioni e degli strumenti per la diffusione del (buon) giornalismo contemporaneo. Come scrive il filosofo Luciano Floridi a proposito di post-truth: “Abbiamo bisogno di un’info-sfera etica per salvare il mondo e noi stessi da noi stessi. Ma ripristinare questa info-sfera richiede un grande sforzo ecologico. Dobbiamo ricostruire la fiducia tramite la credibilità, la trasparenza e la responsabilità e un alto grado di pazienza, coordinazione e determinazione”.

Ma questo processo deve coinvolgere tutti: non possiamo dimenticare che il giudizio finale è competenza dei suoi fruitori, e cioè di tutti noi. Nessuno, nel profondo, ammetterà mai di credere alle notizie false. Per far avvicinare quest’ultima affermazione almeno a una parvenza di oggettività, bisogna che tutti noi ci alleniamo costantemente allo sforzo della verifica (almeno superficiale), a mettere in dubbio le nostre convinzioni e ciò che le accarezza benevolmente in un mondo che ci offre e ci offrirà fin troppe informazioni.

Dobbiamo dunque impegnarci – come singoli, come società, come istituzioni (soprattutto quelle dedite all’istruzione) e imprese – a sviluppare un maggiore pensiero critico per rendere le nostre menti terreno fertile per la curiosità e materia arida per i semi della post-truth.