L'odio non è un sentimento, ma una spiegazione del mondo, un'ideologia di giustizia e di rivalsa, che lusinga la politica, cui promette consenso, e il popolo, cui garantisce di vendicare i torti subiti. Oggi l'Occidente è tornato lì, sull'orlo di quell'abisso. L'odio non è solo un messaggio, ma anche un medium di "verità alternative", un generatore automatico di prove e di alibi. Con un’invidiabile capacità – anche prima del web e dei social media – di diventare senso comune.

Palma mani odio

La polarizzazione dei sentimenti politici sembra destinata a disarticolare il sistema globale lungo linee di frattura inaspettate, a partire dal suo centro culturale e ideologico. L'America rinnega l'ordine americano: quello politico-strategico fondato sul ruolo internazionale dell'Alleanza atlantica e della potenza militare statunitense, e quello economico fondato sulla globalizzazione, una delle tante forme con cui - secondo i suoi nemici – il “pensiero unico” di Washington ha colonizzato il mondo, imponendo la "dittatura liberista" sulle ambizioni di sviluppo dei Paesi poveri e sul desiderio di sicurezza dei Paesi sviluppati.

Ma l'America First di Trump è la paura del genio uscito dalla lampada americana, non la reazione a un complotto contro l'America o al carnage (carneficina) dell'economia a stelle e strisce perpetrato dai suoi nemici economici e parassiti politici, come ama presentarlo il nuovo inquilino della Casa Bianca. La globalizzazione e l'economia 4.0 disordinano i destini della classe media americana e in genere di quella dell'ex Primo Mondo nel problematico disallineamento tra i tempi della tecnologia, quelli della politica e quelli della demografia.

L'elettore mediano, in tutti i grandi Paesi occidentali, è spiazzato e attardato alle logiche della democrazia 2.0, quella che ha accompagnato la seconda rivoluzione industriale, con le sue classi e la sua organizzazione sociale, le sue catene del valore e le sue forme di rappresentanza politica, le sue identità religiose separate e il suo profilo "razziale" definito e riconoscibile. Anche negli Stati Uniti, in fondo, dove la battaglia antisegregazionista fu una lotta di minoranze per i diritti di una minoranza: l'esatto contrario della dinamica auto-segregazionista della constituency di Trump, che si sente minacciata, entro pochi decenni, dall'avvento di un'America irrimediabilmente meticcia, dove i bianchi non ispanici cesseranno di essere la maggioranza.

Dall'altra parte dell'Atlantico, l'Europa riproduce analoghe tensioni, aggravate da un senso di consapevole debolezza e di angoscioso accerchiamento. Il nazionalismo americano rimane quello di una potenza, quello europeo è il riflesso di un'impotenza. La fine della pace perpetua, garantita paradossalmente dalla Guerra Fredda e dall'equilibrio del terrore, pochi anni dopo la caduta del Muro aveva messo tragicamente l'Europa dinanzi alla propria minorità strategica.

Le mattanze nell'ex Jugoslavia, cui dovette tardivamente rimediare per due volte il gendarme americano (prima con la pace di Dayton, poi con l'intervento in Kosovo) furono lo specchio dell'incapacità del Vecchio Continente di uscire dal suo bozzolo economico. Serviva infatti acquisire uno statuto politico globale e adeguato alla forza di attrazione che l'Ue ha fin da subito esercitato su Paesi e popoli imprigionati per decenni al di là della Cortina di Ferro.

La permanente inadeguatezza europea, effetto delle chiusure nazionaliste di Paesi membri incapaci di uscire dalla routine della negoziazione intergovernativa, si è dimostrata ulteriormente rovinosa quando l'Europa ha dovuto fronteggiare emergenze strategiche sul fronte migratorio e su quello terroristico. L'incombenza del pericolo e l'incapacità di affrontarlo hanno a propria volta rinfocolato l'illusione di respingere sulle frontiere interne degli stati membri quanto non si riusciva ad arginare – per difetto di cooperazione, di coraggio e di visione – sulle frontiere esterne dell'Unione. Le stesse parole d'ordine che in bocca a Trump suonano realisticamente minacciose, in bocca ai leader della variegata “internazionale nazionalista” che tiene in scacco la politica europea e almeno tre dei Paesi fondatori (Italia, Francia e Olanda), suonano invece irrealistiche e auto-consolatorie.

La fuga dall'Europa e dall'euro, il disprezzo dichiarato per le istituzioni di Bruxelles e Francoforte, il vagheggiamento di identità più autentiche di quelle europee sono un repertorio di "mosse", non di gesti. Le Pen e Salvini parlano di una Francia e di un'Italia che non ci sono più e che possono essere solo resuscitate nel rimpianto; contrappongono una verbosa claustrofilia alla sindrome politicamente agorafobica conseguente non alla rinuncia ai confini nazionali, ma alla loro sostanziale insussistenza come possibile riparo ai marosi del mondo globale.

Il problema dei confini nazionali, per gli stati europei, non è che essi siano stati abbattuti da Schengen o dal mercato comune, ma che non possano più funzionare per "fermare il nemico", qualunque forma esso abbia, qualunque pericolo esso porti con sé. Come dice il Vice Presidente della Commissione Ue Frans Timmermans, “esistono due tipi di Paesi membri: quelli troppo piccoli, e quelli che non hanno ancora capito di essere troppo piccoli”.

Anche il nazionalismo europeo, come l'America first, nasce però dalla paura di sé, non degli altri, della propria debolezza, non dell'altrui minaccia, e soprattutto della rivoluzione delle gerarchie di potenza economica e politica che il vecchio ordine liberale comporta a beneficio di nuovi e agguerriti pretendenti al benessere, dopo che per decenni ne hanno goduto solo i suoi "titolari" storici, dall'una e dall'altra parte dell'Atlantico del Nord, con la propaggine giapponese. Il nazionalismo misura la febbre dell'ex Primo Mondo, che è alta.

Il mondo della paura è diventato anche il mondo dell'odio. Ma l'odio è semplicemente un prodotto, cioè un effetto della paura? L'odio è l'energia negativa liberata dalla fissione del nucleo ideologico dell'ordine politico euro-occidentale e pronta a esplodere in modo incontrollato? L'odio è semplicemente la forma estrema e radicale della polarizzazione dei sentimenti politici contemporanei? L'Occidente che scopre l'odio dentro di sé ha dovuto e deve tuttora fronteggiare l'odio contro di sé.

Dal 2001 a oggi il confronto dell'Occidente con il mondo islamico vive sotto la costante minaccia della jihad terroristica e dell'espansionismo islamista. Sono poche e sempre più isolate le aree del mondo musulmano ancora immuni da questo duplice processo, che suona alle orecchie occidentali come una duplice sfida. Ma, di nuovo, l'odio che l'Occidente ha iniziato "scientificamente" a coltivare come risposta alle più urgenti minacce esistenziali è un fenomeno meramente reattivo?

No, l'odio non è un sentimento, ma una spiegazione del mondo. È un prodotto culturalmente originario, che elegge le proprie vittime come mezzi in vista di un fine e che le sacrifica - simbolicamente o no - per esorcizzare il male da cui vorrebbe liberare chi se ne sente vessato e afflitto. Nella Germania nazista, l'antisemitismo non fu una reazione alle condizioni inique della pace di Versailles. Al contrario, le frustrazioni della guerra e l'umiliazione della pace slatentizzarono un pregiudizio covato per secoli nel subconscio politico del pensiero tedesco. Tutti soffrivano e la colpa, come in fondo molti avevano sempre pensato, era degli ebrei. Nella logica dell'odio, tutto torna. Non ci sono aporie, contraddizioni, complessità. I tempi cattivi legittimano i pensieri cattivi e ne confermano le ragioni.

Nell'America di Trump rialza la testa il suprematismo bianco, nell'Europa dei suoi epigoni domestici un radicalismo etno-nazionalista che fa coincidere l'immigrazione con l'islamizzazione. L'odio è una dimensione ideologico-culturale, non psicologica del pensiero politico. Anche nell'odio, come nella paura, l'Occidente parla innanzitutto di sé, prima che del “nemico”, e si confessa. Il disprezzo per il politicamente corretto, cioè per la banale osservanza di regole e principi di diritto, ad esempio in materia di asilo o di assistenza umanitaria, dimostra che l'odio non è solo guevaristicamente una forma di lotta - un movente dell'azione contro il nemico - ma anche uno stile di pensiero, cioè una forma di interpretazione dei fatti e delle loro relazioni “segrete”.

L'odio ha anche una sua pedagogia e una sua ambiziosa dimostrabilità fattuale, soppiantando la realtà delle cose con quella di un pregiudizio incarnato nella rappresentazione dei fatti. Un lavoro a cui le nuove tecnologie offrono dovizia di mezzi e di strategie. Ma l'odio non è solo un messaggio, bensì anche un medium efficientissimo di "verità alternative", un generatore automatico di prove e di alibi. Molto prima di Internet e dei social media, l'odio ha dimostrato un’invidiabile capacità di diventare senso comune.

Per fronteggiare la politica dell'odio, essa va innanzitutto definita e riconosciuta come tale. Non come un'espressione legittima di risentimento, non come un comprensibile grido di dolore, non come un meccanico effetto collaterale della paura o dell'incertezza. Nell'Europa così sensibile ed esposta alle seduzioni sovraniste, il Paese che è più immune dal discorso dell'odio, come dimostreranno le prossime elezioni, è non casualmente la Germania, quello che nel dopoguerra ha elaborato nel modo più radicale la “questione della colpa” come questione dell'odio. Le sole aree tedesche pesantemente contagiate dalla xenofobia sono quelle orientali che per ragioni storiche sono state escluse da quest'opera profonda e collettiva di conversione "interiore" alla responsabilità della colpa.

L'odio, molto prima che una barbarie morale, è una tentazione intellettuale, un'ideologia di giustizia e di rivalsa, che lusinga insieme la politica, cui promette consenso, e il popolo, cui garantisce di vendicare i torti subiti. Oggi l'Occidente è tornato lì, senza nemmeno accorgersene, sull'orlo di quell'abisso. Con nuove vittime designate, nuovi capri espiatori, nuovi complotti da sventare, nuovi nemici e traditori da esporre al pubblico ludibrio, nuove menzogne da ripetere cento e mille volte, a cui per diventare verità basta solo di essere credute.

@carmelopalma