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Se volessimo descrivere in poche parole la nuova mossa del Ministro dell'Interno Marco Minniti per il contrasto alle fake news, potremmo forse riassumerla così: debunking di Stato, operato dalla forza pubblica.

L’idea (ormai operativa) presentata in pompa magna dal ministro e dal capo della Polizia Gabrielli è infatti quella di affidare alla Polizia di Stato - e in particolare a una sezione altamente specializzata per il contrasto dei crimini informatici che mettono a rischio le infrastrutture di rete nazionali, il Cnapic – la raccolta delle segnalazioni su fake news presenti online e le azioni conseguenti: il controllo di verità, la pubblicazione nei canali istituzionali di tale verità ed eventuali provvedimenti in presenza di reati, compreso l’avvio dei procedimenti per l’oscuramento o la cancellazione di contenuti (che in una prima comunicazione pareva fosse una procedura quasi automatica, ora è stata riportata al suo legittimo campo d’azione, con il necessario vaglio dell’autorità giudiziaria). 



È il progetto “red button”, ovvero un servizio usufruibile tramite il sito della polizia di stato, grazie al quale “il cittadino, giovandosi di un’interfaccia web semplice ed immediata, capace di guidarlo passo dopo passo nel più corretto utilizzo dell’applicazione, sarà in grado di comunicare alla Polizia l’esistenza di contenuti assimilabili a fake news. Attivata la procedura, la Polizia aprirà un canale diretto di comunicazione con il segnalante al quale verranno date informazioni anche in merito a querele e indicazioni per i social network. In particolare, verrà presa in carico da un team dedicato di esperti del Cnaipic (Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche) che, in tempo reale, 24 ore su 24, effettuerà approfondite analisi, attraverso l’impiego di tecniche e software specifici. Grazie al “Red button” si limiterà, nell’interesse del singolo ma anche dell’intera comunità che usa i social, la diffusione di notizie false, ingiuriose o diffamatorie o che addirittura possono destare allarme sociale”.

Non è il caso – non ancora almeno – di parlare di censura o di provvedimento autoritario, ma è difficile non pensare che un protocollo come quello siglato dal ministero dell’Interno e dalla Polizia possa essere il seme di un albero dai frutti avvelenati, il primo passo verso un sistema di verità istituzionalizzata, ovvero rafforzata tramite l’uso dei poteri e degli strumenti pervasivi dello Stato. E non è un bel segnale che un tale seme venga piantato alla vigilia delle elezioni, dove da sempre prospera l’informazione distorta, quella roba che chiamiamo propaganda: fin dove si spingerà il controllo statale? 



Perché – si badi bene - viene assegnato alla Polizia un compito nuovo, che va oltre la normale funzione di indagine sulle ipotesi di reato: il protocollo Minniti non si limita a offrire al cittadino una via semplificata per segnalare eventuali reati e offrire supporto nella complessità dei rapporti con i grandi provider o i grandi social network; il protocollo Minniti esplicitamente demanda alla forza pubblica un generalizzato controllo della qualità dell’informazione in rete, assegnandogli il compito (velleitario) di ristabilire la verità laddove venga ritenuta violata, diffondendola - anzi, addirittura “viralizzandola” come suggerisce il comunicato stampa ministeriale - senza neppure che si capisca quale sia il discrimine tra fake news e il resto dell’informazione, lasciando distinzioni e sfumature all’arbitrio degli operatori o alla sofisticazione degli avanzatissimi quanto sconosciuti software. 



Si risponde ad aberrazione con aberrazione. Non sono i suoi effetti oggi ad essere preoccupanti, perché “Red Button” è a forte rischio implosione data la potenziale mole di lavoro che si genererà e la plausibile sostanziale inefficacia di una ‘verità’ col bollino dello Stato in una società che sempre meno si fida dello Stato e delle informazioni che trasmette. A preoccupare è il messaggio che viene trasmesso: in una democrazia il controllo di verità sull’informazione – su qualsiasi tipo di informazione presente online – può passare dal vaglio della polizia, cioè della forza pubblica. Se è chiara – e in astratto lodevole – la preoccupazione per il ruolo che l’informazione distorta e di scarsa qualità può giocare nella costruzione di una sana società democratica e nei processi decisionali, non si può non osservare che la strada scelta da Minniti appare sbagliata sotto vari punti di vista. Oltre ad essere una difesa blanda, rischia di trasformarsi in un’arma di autodistruzione del libero arbitrio e libero discernimento dei cittadini che lo Stato dovrebbe garantire, e così forse quel ‘red button’ suggerisce un futuro in cui avrà tutt’altro e terribile significato.

Il vero argine alle fake news - che spesso prosperano grazie a player piuttosto mainstream e non solo tramite oscuri siti web o bot – passa principalmente per un’informazione di qualità ed è qui, semmai, che andrebbero concentrati impegno e risorse, rivedendo magari anche in tal senso i criteri per l’assegnazione dei contributi pubblici all’editoria e investendo parallelamente in strumenti idonei a migliorare e adattare alla complessità dei tempi e alle tecnologie correnti le capacità critiche dei cittadini (dall’educazione scolastica alla formazione per gli adulti, passando per una dotazione infrastrutturale adeguata).

L’informazione distorta, tranne i casi in cui sia veicolo per il compimento di reati, non si ferma con la forza. Si ferma togliendole il terreno da sotto i piedi, ovvero spezzando la sua capacità di diventare virale, dunque stimolando e accrescendo le capacità critiche e la curiosità per l’approfondimento di chi quell’informazione la riceve, in un mondo sempre più complesso dove il dualismo vero/falso ha sfumature che troppo spesso vengono nascoste ma che sono arricchimento per un sano dialogo democratico.

L’argine alle fake news deve passare necessariamente per soluzioni complesse e diffuse, da sviluppare su più piani e che richiedono il coinvolgimento attivo non solo delle istituzioni ma anche delle persone, dai produttori di informazione ai fruitori di essa. Ma più ci si concentra su strumenti prêt-à-porter – meccanismi punitivi, che siano filtri o bollini, sempre comunque affidati a soggetti troppo forti e accentratori per essere considerati affidabili – più ci si allontana dalla vera soluzione del problema.