Il populismo si identifica come alternativa al sistema vigente, tuttavia raramente lo è davvero: la contrapposizione amico/nemico che propone è funzionale soltanto alla sua propagazione e auto-affermazione. Ma come combatterlo efficacemente?

Zotti Vendetta

Ogni movimento populista stabilisce un rapporto dialettico con l'establishment, che può assumere diverse tonalità di contrapposizione, da quella più moderata a quella apertamente sovversiva o rivoluzionaria.

I populismi che stiamo sperimentando in Italia, sia quello leghista e della destra post-AN, sia quello grillino, sia quello, ormai spento, berlusconiano, sono solo apparentemente espressione di una vera alternativa al sistema politico vigente, tanto che, quando governano, lo fanno in modo pienamente compatibile con le amministrazioni che li hanno preceduti o con le istituzioni centrali e regionali di diverso colore politico.

Ciò spiega, probabilmente, il motivo per cui l'Italia si trova ad essere, nello stesso tempo, il paese europeo con la maggiore e, apparentemente, più variegata offerta populista e il paese il cui sistema politico esibisce una sostanziale continuità di politiche di governo, pur transitando da governi populisti di destra (Berlusconi-Bossi) a governi tecnici (Monti), a governi di “grande coalizione” (Letta), fino al governo Renzi – sempre più spesa pubblica, riforme del mercato del lavoro e del sistema pensionistico parziali, insufficienti e contraddittorie, incapacità di riformare la pubblica amministrazione e il sistema giudiziario, scarso amore per il libero mercato.

La fondamentale caratteristica della comunicazione di un movimento populista è l'identificazione del nemico, spesso piuttosto generica e non di rado arbitraria e poco plausibile. La costruzione di una dialettica basata sulla coppia antinomica “amicus/hostis” (amico/nemico), come definita da Carl Schmitt, è il principio ordinatore di ogni movimento populista – secondo Schmitt, in realtà, di ogni interazione politica.

Il nemico è generalmente identificato a due livelli: la classe politica al potere, eventualmente ampliata fino a includere la classe dirigente in senso lato (chi comanda nell'economia, nella finanza, nell'università, nella cultura, nell'informazione), e un nemico più prossimo al cittadino comune, che possa rappresentare un bersaglio meno astratto e irraggiungibile: gli immigrati e le minoranze etniche o religiose sono sempre un ottimo bersaglio, perché fisicamente e linguisticamente riconoscibili, spesso confinati in aree urbane delimitate e generalmente caratterizzati da un tasso di devianza sociale molto più alto in rapporto al resto della popolazione. Quando, come nel caso dei Cinque Stelle, questo secondo bersaglio manca, il messaggio populista s'indebolisce e diviene contraddittorio – i grillini hanno eletti generalmente di sinistra e un elettorato in maggioranza di destra – e non esiste un bersaglio facile contro cui indirizzare la mobilitazione degli aderenti, che costituisce uno dei tratti specifici del populismo.

La seconda caratteristica fondamentale del populismo è la presunzione di rappresentare la grande maggioranza dei cittadini, anche quando la realtà dei numeri elettorali contraddice questo postulato. Questa maggioranza postulata e inespressa è la giustificazione politica che consente ad ogni movimento populista di negare la legittimità degli oppositori, sia interni che esterni, così come del sistema legale che regola la vita civile e politica del paese.

La missione salvifica che ogni soggetto politico populista si attribuisce giustifica ogni deviazione dal comportamento legalmente ammesso, fino a considerare la violazione della legge come momento politico di asserzione della propria natura “rivoluzionaria”. In realtà, l'invocazione della “necessità politica” come origine della propria azione e della propria esistenza rende il populismo un prodotto squisitamente politico, che tende per ciò stesso a porsi come anteriore e superiore alla legge e all'ordine costituito. Per quanto la realtà dei fatti e dei personaggi immiserisca, smentisca e ridimensioni tale natura sovversiva o rivoluzionaria, spesso per l'inadeguatezza dei leader populisti ad interpretare tale ruolo fino in fondo, nondimeno questa forte pulsione anti-sistema è la radice di ogni populismo.

I populisti esaltano non tanto la razionalità delle soluzioni che propongono, quanto la radicalità semplicistica delle loro proposte. La soluzione è efficace perché radicale, perché semplice e perché necessaria, non perché vi sia una razionale dimostrazione della sua idoneità a risolvere un certo problema. Perciò, l'impiego di un'analisi ragionata per contraddire e smentire gli argomenti dei populisti non funziona, ma anzi rafforza il messaggio populista, che tende generalmente a liquidare con disprezzo, tacciandola di capziosità, la dimostrazione fattuale della propria implausibilità e inefficacia politica.

Come rispondere alla propaganda di un movimento populista? La questione è più complessa di quanto si creda. Una prima, elementare strategia di risposta è quella di ignorare, per quanto possibile, il movimento in questione, cercando di tenerlo fuori dal circuito dell'informazione politica. È la strategia del “tamquam non esset”: comportarsi come se quel certo movimento populista non esistesse, non rispondere alle provocazioni ed evitare di legittimarlo indirettamente facendone aperto oggetto di polemica politica.

Si tratta della strategia inizialmente adottata da Giorgio Napolitano contro i grillini, che non è stata però seguita dagli altri partiti. La scelta di Grillo, fatta all'inizio della storia del Movimento Cinque Stelle, di operare lui stesso un'esclusione dal circuito stabilito dell'informazione politica sembrerebbe contraddire ciò che si è appena affermato, ma il fatto che, poi, lo stesso personaggio abbia partecipato a “Porta a Porta”, la trasmissione più “integrata” e “istituzionale” della comunicazione politica della televisione pubblica, conferma che l'accesso a quel circuito comunicativo è un passaggio necessario di legittimazione.

Una seconda strategia, generalmente adottata quando i movimenti populisti cominciano a guadagnare cospicui consensi, è quella della delegittimazione: i partiti politici dell'establishment cominciano a “coordinare il fuoco”, concentrandolo sul bersaglio populista, e cercano di sminuirne il valore politico, di smentirne le ricette e le proposte e di compromettere la reputazione dei suoi leader, spesso approfittando della collaborazione dei mezzi di informazione.

Questa strategia, anch'essa abbastanza semplice, contribuisce però a polarizzare il confronto tra il movimento populista da un lato e l'establishment dall'altro, con ciò facendo esattamente il gioco che favorisce i leader populisti e ne rafforza il messaggio di fondo: tutta la competizione politica si esaurisce nella scelta tra “noi” e “loro” (“amicus/hostis”), al di là del merito delle specifiche proposte, del programma, dell'identità. Un corollario di ciò è la tendenza dei populisti a negare la distinzione tra destra, centro e sinistra, per sostituirla con una definizione del posizionamento politico degli elettori (del “popolo” e della “gente”) in rapporto esclusivo alla logica “amicus/hostis”: o con noi o con gli “altri”, o con il bene o con il male. Il manicheismo politico è un corollario necessario di questa antinomia.

Una strategia più sottile tende invece a includere i movimenti populisti nella discussione politica, ad assorbirli parzialmente e progressivamente nell'establishment, soprattutto quando questi hanno ottenuto una visibile rappresentanza nelle istituzioni. È una strategia di compromissione che cerca di far leva sulle debolezze dei singoli rappresentanti, sulla loro inesperienza politica, sulla fragilità dell'organizzazione dei movimenti populisti e sulla loro latente conflittualità interna, spesso dovuta proprio alla loro friabilità organizzativa.

Quando però il movimento populista è particolarmente connotato in funzione anti-sistema, questa strategia di assorbimento e di normalizzazione è destinata a produrre pochi risultati. In tali casi, è più utile adottare un'esplicita strategia di contro-populismo, usando tutti gli strumenti della propaganda, potenziati dall'accesso privilegiato all'informazione che una posizione di governo conferisce, per controbattere colpo su colpo e cercare di trasformare, agli occhi dell'opinione pubblica, il movimento populista da “salvatore della patria”, come vorrebbe rappresentarsi, a “vera causa di tutti i problemi”. In tal modo, i populisti vengono costretti sulla difensiva e rinchiusi nella loro stessa logica “amicus/hostis”, che viene esasperata fin quasi a prefigurare una guerra civile, sia pure confinata, sperabilmente, all'ambito della comunicazione politica.

Abbiamo già visto questa tecnica usata, non senza perizia, da berlusconiani e anti-berlusconiani per oltre due decenni: l'esito è stato quello di sfiancare l'opinione pubblica italiana con vent'anni di polemiche aspre quanto interminabili, vent'anni in cui la realtà è stata, da entrambe le parti, negata, esasperata, manipolata e trasfigurata mille volte, facendo dell'iperbole e dell'aperta menzogna il linguaggio corrente della comunicazione politica e istituzionale. Il fatto che ciò sia divenuto la cifra stilistica normale e apparentemente accettata in Italia non significa che non sia un’anomalia sistemica, né implica che l'estremizzazione del linguaggio sia priva di conseguenze in futuro. La strategia del contro-populismo, tuttora adottata dal governo Renzi, non cerca di circoscrivere o spegnere l'incendio dei movimenti populisti, ma lo aggredisce con un incendio uguale e contrario, che consuma l'ossigeno che li alimenterebbe. L'esito, come s'intuisce, può essere molto pericoloso.

La migliore strategia, in realtà, rimane quella di sottrarsi alla rappresentazione e alla dialettica antinomica “amicus/hostis”, offrendo soluzioni di governo della complessità efficaci e lungimiranti, che nascono dall'elaborazione politica svolta in partiti nuovi, partiti “intelligenti”, che offrono all'elettorato classi dirigenti capaci e non corrotte, selezionate e formate con diligenza e dedizione, partiti che usino la conoscenza, e non solo la propaganda, come strumento di legittimazione. In tal modo si preservano le istituzioni democratiche dalla devastazione che la logica “amicus/hostis”, intrinsecamente totalitaria, presuppone e persegue: costruire il nuovo sulle rovine del vecchio. Questo punto ci introduce ad un altro aspetto della questione.

Perché si combatte il populismo? La prima e più ovvia ragione è chiara: per preservare lo status quo. È la tipica ragione dell'establishment, di chi ha potere e posizioni di rendita e non vuole vederle messe in discussione dai nuovi arrivati. Una seconda ragione, politicamente un po' meno egoistica, è quella di promuovere la riforma dell'esistente approfittando della minaccia “sovversiva” e “rivoluzionaria” del populismo. Se questo è un uso apparentemente astuto della dinamica conflittuale che il populismo ha necessità di instaurare nel sistema politico, resta però da vedere se coloro che mettono in atto questo proposito, “riformare per non soccombere”, abbiano le capacità politiche per condurre a buon fine un'operazione così delicata e complessa.

La terza possibilità è che si combatta il populismo per costringere il sistema politico (democratico) non a riformarsi, ma a rinunciare alla propria natura, di fatto rovesciandolo e ricostruendolo non sulle coordinate politiche precedenti né su quelle perseguite dai populisti, ma su coordinate nuove, probabilmente autoritarie e certamente disallineate rispetto al percorso delle democrazie occidentali. Tale percorso, infatti, è quello che oggi produce i populismi in tutta Europa e negli Stati Uniti, e una simile ipotesi si appoggerebbe sull'idea che per contrastare la febbre del populismo bisogna curare il corpo malato della democrazia, cioè che si deve curare il corpo malato dell'occidente dalla democrazia. Da ciò si comprende come la lotta contro i movimenti populisti, se mal impostata e peggio condotta, può divenire fatale per le stesse istituzioni democratiche.

Il contrasto al populismo non deve solo osservare queste cautele, cioè evitare di uccidere il paziente per estirpare il male, ma deve anche modularsi sulle caratteristiche del movimento populista che cerca di combattere. Il ciclo vitale di un movimento populista è generalmente segnato da alcune fasi piuttosto chiare: una nascita, spesso frutto di un'iniziativa iper-minoritaria, se non addirittura individuale; a questa fa seguito un inizio stentato, segnato dalla difficoltà di reperire denaro e risorse organizzative, di orchestrare un messaggio centrale e una strategia comunicativa riconoscibile, e di reclutare membri; se non si estingue a questo punto, il movimento populista comincia a vivere un'espansione rapida, addirittura geometrica, quasi sempre per fattori esogeni (una crisi economica e sociale, una guerra) che hanno relativamente poco a che fare con l'efficacia e il successo delle sue strategie di sviluppo e con la capacità di persuasione e di penetrazione del suo messaggio; quindi, la crisi generata dalla crescita improvvisa scatena una resa dei conti interna; a seconda dell'esito di questo redde rationem, si avvia un processo di stabilizzazione o, viceversa, il collasso del movimento; se il processo di stabilizzazione ha successo, determina un'istituzionalizzazione del movimento in un partito abbastanza strutturato.

Se si guarda a questo percorso dal punto di vista organizzativo, nella prima fase si avrà un'organizzazione fluida e fragile, in cui i conflitti interni non trovano adeguate procedure e spazi di risoluzione: ciò accresce il ruolo della leadership e la carica di responsabilità del capo, fino a identificare il movimento con il leader. Nella fase di espansione vorticosa, l'organizzazione si farà nel contempo caotica e iperattiva, ed eviterà di esplodere solo perché tenuta insieme dalla leadership carismatica, dalla pressione dell'ostilità dei nemici esterni e dal continuo afflusso di nuovi membri, che tenderanno a diluire il potere e la presa delle fazioni interne. La crisi che segue inevitabile segna generalmente l'insorgere di un'organizzazione più disciplinata e più rigida, solidificata e, in qualche modo, spenta dal riallineamento che le epurazioni interne, l'assunzione di ruoli istituzionali e del potere che questi comportano e il trasferimento delle contese di potere dal partito alle istituzioni finisce per determinare. Le strategie anti-populistiche devono dunque essere modulate sulla fase evolutiva in cui quel certo movimento populista che si combatte viene a trovarsi in un determinato momento.

Visto che in Italia cerchiamo di non farci mancare niente, ci troviamo oggi ad osservare la crescita di molteplici populismi, simultaneamente. Da destra a sinistra, e includendo l'area governativa ed ex-governativa, movimenti populisti, semi-populisti, o partiti dai toni e dagli atteggiamenti populisti occupano praticamente tutto lo spazio elettorale e sembrano esaurire tutta la possibile offerta politica. Tutto ciò fa sì che il sistema politico italiano sia attraversato da molta “elettricità”, e, per effetto Joule, produca molto “calore”, fino ad arroventarsi.

Il problema principale è che lo stesso attore (l'establishment, ovvero, innanzitutto, il governo) deve contrastare molteplici, ma sorprendentemente simili, anche se politicamente opposti, movimenti populisti, e nel farlo deve comunque mantenere una qualche coerenza del proprio messaggio politico. Ciò genera una tensione tra la scorciatoia di un contrasto meramente tattico e opportunistico ai populismi e il mantenimento della riconoscibilità della propria posizione politica.

Per tenere tutto ciò insieme e non farsi dettare l'agenda dai movimenti populisti serve una capacità di elaborazione e gestione politica sofisticata, che sappia combinare una duttilità tattica molto pronunciata con la consapevolezza degli obiettivi strategici – il disinnesco del populismo come fattore di destabilizzazione del sistema politico – che è una sapienza assai rara da trovare. Nel contrastare più movimenti populisti contemporaneamente è possibile cercare di far sì che si elidano l'uno con l'altro, relegandosi in un gioco d'interdizione reciproco che li emargina alle ali estreme dell'arco politico, lasciando che il tempo e l'inefficacia della loro azione ne svuotino il bacino di consensi.

Ciò, però, aumenta la disaffezione politica, in particolare se quegli elettori delusi dai populisti non sono recuperati nel gioco politico all'interno del sistema democratico. È infatti necessario ricordare che il collasso di un movimento populista non rimuove le ragioni sociali, politiche e storiche che lo hanno generato, né fa evaporare il consenso che esso è riuscito a raccogliere. Quelle ragioni e quel consenso, semplicemente, si spostano su altri soggetti politici, oppure si ritirano nell'astensionismo, che diviene l'opzione attraverso la quale una porzione della società si aliena dal sistema politico democratico.

Quando si presenterà un nuovo movimento populista, e il vuoto lasciato dai populismi sconfitti garantisce che questo accadrà necessariamente, questo sarà spinto ad essere ancor più estremista dei predecessori, perché attribuirà al loro “moderatismo” le ragioni del loro fallimento, e dunque esaspererà le sue connotazioni anti-sistema. Nel farlo, troverà un elettorato ricettivo tra gli astensionisti “attendisti”, delusi da tutte le precedenti offerte politiche, che potranno essere convinti ad abbandonare la propria disgustata disillusione solo da un rilancio visibile e consistente nell'estremismo della proposta politica.

I nuovi movimenti populisti saranno quindi più estremisti e più aggressivi, probabilmente violenti, e sempre più nettamente contraddistinti da un rifiuto esplicito della democrazia, che diverrà il capro espiatorio di ogni delusione e di ogni fallimento, individuale o collettivo, politico o economico, sociale o umano. Mentre in passato la crisi della democrazia è stata identificata con l'incapacità dei partiti e dell'establishment di rappresentare nuovi ceti e classi sociali, oggi il problema è piuttosto quello del governo della complessità delle nostre società occidentali.

La società, oggi, è capace di rappresentarsi da sola, senza l'intermediazione della politica. Ciò che non può fare è governarsi da sola, e questo è il compito specifico e cruciale della politica: trovare il punto di equilibrio che mantiene il sistema stabile su un percorso di prosperità.