Il fake di Alfio Marchini, la moschea di Sucate, Gasparri che insulta, Trump che fa la voce grossa, la Clinton che fa gaffe: i politici dell’era di Facebook e Twitter, di Instagram e Snapchat, non possono prescindere da una massiccia presenza social. Con alterne fortune, però.

Colonna clown

C’era una volta Marchini. Arfio. Quello che parafrasando - o, per essere più romani e più sinceri: paraculando - il vero candidato sindaco della città è diventato una celebrity online. Da anni. Tutti, dentro il GRA e su Facebook, lo conoscono. Tranne, pare, Virginia Raggi, front runner dei Cinque Stelle, la quale ha compiuto la gaffe di scambiarlo per l’Alfio vero, quello con il ciuffo glamour, la elle nel nome e il sostegno di Silvio Berlusconi. E prendere sul serio un fake online - un profilo falso - equivale a dichiarare in tv di non sapere quanto costi un litro di latte: cambiano i mezzi di comunicazione e i tempi, ma si fa comunque la figura di chi è fuori dal mondo.

Perché la politica, in Rete, è così: un dibattito perpetuo, di cui è fondamentale conoscere le regole. Pena prendersi in piena faccia il pugno del ko, che può arrivare da tutti: avversari, sostenitori, staff, pubblico. La grande differenza con il confronto in tv o sui giornali è proprio qui, nel numero, potenzialmente infinito, degli attori coinvolti. Un esempio di fuoco amico? Sucate. Il fantomatico quartiere di Milano fu nominato da un utente su Twitter durante la campagna per le amministrative di Milano, 5 anni fa, rivolgendo una domanda a Letizia Moratti. La quale - o meglio: lo staff della quale - rispose sul serio. L’errore mandò la candidata forse su tutte le furie, di certo su tutti i giornali ed è rimasto nella memoria come un classico esempio di epic fail - sbaglio epico.

Insomma, le social insidie sono tante. E, per questo, c’è chi teme la battaglia costante, ma, non potendola evitare, finisce per gestirla male. È accaduto, per esempio, a Mitt Romney, il re degli algidi. Se durante la campagna del 2012 è sembrato così freddo e distante dagli elettori c’è un motivo. Anzi, secondo l’ex collaboratrice Mindy Finn, ce ne sarebbero 22: tanti quanti i membri dello staff coinvolti nella decisione di pubblicare un post. Con la conseguenza di farlo sempre troppo tardi e troppo timidamente.

Una ritrosia simile, per certi versi, a quella di Hillary Clinton, secondo alcuni commentatori troppo impostata. Quando ha lanciato la campagna online “7 cose che Hillary Clinton ha in comune con tua nonna” lo staff ha deciso di sostituire il termine inglese grandmother con quello spagnolo abuela. L’obiettivo era prendersi le simpatie dell’elettorato latino, umanizzando la candidata, il risultato è stato, invece, accumulare offese con l’hashtag #NotMyAbuela. Perché le molte abuelas d’America potrebbero forse condividere la data di nascita con la Clinton ma non lo status economico o il passato da first lady.

Ma se una brutta figura è per Hillary uno scivolone, la gaffe è invece il propellente di un altro candidato, Donald Trump, il leader repubblicano in pectore, di cui Nicholas Carr, autore statunitense esperto di tecnologia, ha scritto: “è il dio dei social media” - contrapposto a Bernie Sanders che il New York Times ha definito il re del social network per l’alto numero di sostenitori su Facebook. Ma perché il discorso politico di Donald Trump funziona in rete? E ottiene, ad esempio, circa 1.000 retweet per post, molto più della media degli avversari? Perché, spiega Carr su Politico.com, il magnate è un natural born troll, un disturbatore nato. E i troll, come è noto, spopolano - ndr: il problema, semmai, potrebbe riguardare il target della continua aggressione di Trump: il proprio partito che, a differenza del candidato, è legittimo non si accontenti del ruolo politico di disturbatore, privato di autorevolezza.

Un natural born troll, in sostanza, funziona più o meno così: come Maurizio Gasparri. Colleziona gaffe, perché non si pone limiti, e scrive nel tentativo di provocare una polemica. Sempre. “Il troll ha una personalità Snapchat”, spiega Carr, esplode a intervalli regolari, compone un discorso frammentario, che non richiede concentrazione e approfondimento, ma solo scorrettezza e retweet.

Questo, secondo l’esperto, il dramma della politica online: ammaliata dal numero dei followers non pensa, provoca. Si adegua alle dimensioni dello schermo dello smartphone, restringendo così i confini della propria dimensione narrativa - i famosi 140 caratteri - ma anche di quella etica. Perché un discorso frammentario, in grado di procedere più per esplosioni, i singoli post, che per riflessioni, comporta la perdita di autorevolezza e si fonda sulla convinzione di contare tanto quanto il numero di apprezzamenti ricevuti nell’ultimo post pubblicato.

“Nel 1920 la radio ha tolto il corpo ai candidati, trasformandoli in voci - ha scritto Carr - Le campagne diventarono così più intime. Nel 1960 la tv ha ri-consegnato indietro ai candidati il proprio corpo, anche se in due dimensioni. L’immagine è diventata tutto, e la linea di demarcazione tra politico e celebrity è sfumata. John Kennedy è stato il primo candidato di successo dell’era della tv. Oggi - prosegue - con lo sguardo del pubblico costantemente puntato sul telefonino, siamo alla terza grande trasformazione tecnologica della comunicazione elettorale. La campagna presidenziale è diventata giusto un flusso di notizie in più sui social media” E, tra i vari stream, accanto all’aggiornamento sul sederone di Kim Kardashian e le promozioni di H&M, ha perso valore. Ma è davvero così? Siamo sicuri che valga la regola "tanti retweet tanto onore"?

Non è detto. Intanto perché nella vita e nella dieta mediatica dell’elettore medio - quello che determina la vittoria di un candidato, per dire - la politica è sempre stata, metaforicamente, uno stream tra i tanti. Un flusso da seguire a tratti, a intervalli, senza regolarità. Inoltre i social media hanno rimesso al centro del dibattito politico, un po’ come accadeva con i comizi, la personalità del candidato, senza filtri né intermediazioni giornalistiche.

Come ha spiegato Mindy Finn, ad esempio, Trump funziona perché risulta autentico. Sembra spontaneo. E l’autenticità è fortemente apprezzata online - come dimostra, per esempio, il dibattito nato dalla notizia per cui Gianni Morandi, iper-popolare su Facebook, si servirebbe di una social media manager, come fanno, in sostanza, più o meno tutti i personaggi pubblici. Donald Trump, ne sono la riprova i refusi e gli errori di scrittura, twitta da solo. Ma questo non significa che scelga davvero cosa pubblicare: Justin McConney è il responsabile della sua comunicazione online, ne decide tempi, modi, visione. Ed è bravo, perché ha deciso una strada da percorrere, fa apparire il candidato sincero, davvero alterato, sempre sul pezzo, profondamente provocatorio, proprio come cerchia di amici vuole.

Perché questo è il punto. Capire quali valori, emozioni, idee animano i follower. Spesso, infatti, le community che si formano intorno a un brand, a un candidato o a un partito non solo non sono completamente sovrapponibili all’elettorato - per sua natura frammentato, complesso, frastagliato. Ma sono vere e proprie tribù - o grandi insiemi di più tribù - unite da un punto di vista emotivo: ci sono persone che pensano allo stesso modo, condividono problemi e speranze, e - soprattutto - si divertono in maniera simile. Lo dimostra il successo del meme Salvini: quando, nel giorno degli attentati di Bruxelles, ha postato la propria foto in giro per la città, particolarmente corrucciato, è diventato virale. Oppure l’ilarità suscitata dal gasparro remoto.

Durante la partecipazione alla trasmissione Agorà Maurizio Gasparri ha twittato: “È vero che Giorgia Meloni è figlia della storia di destra per questo a suo tempo le chiesimo la disponibilità”. Chiesimo. L’errore, oltre ad aver provocato le dimissioni del social media manager del senatore, ha scatenato la reazione ironica di tanti utenti e, su Gazebo, quella di Makkox. Che ha declinato tutto il verbo, il gasparro remoto, appunto: io chì, tu chii, egli chiè, noi chiesimo, voi ecclesiaste, essi chierno. E se Gasparri non è stato felice della brutta figura, molto contento della sua, invece, si è dimostrato Antonio Razzi, autore di un orrorifico: buona pascuetta. Il ridicolo è l’essenza di Razzi, senza farebbe un altro mestiere. La brutta figura social, in sostanza, fa male a chi ha un posizionamento e uno standing più pacato, riflessivo, credibile. Fa bene a chi costruisce il proprio discorso su altro. A contare è sempre il posizionamento.

I social media, quindi, stanno davvero rovinando la politica? Forse la stanno solo mostrando per quello che è. Una roba fatta di uomini e donne. Che le azzeccano e le sbagliano. Come hanno fatto sempre.