Alla ricerca delle radici sociopsicologiche dei comportamenti populisti: è sempre vero che questi sono dovuti a scelte irrazionali? No. Gli ultimi studi tendono a dimostrare che chi vota un partito più o meno populista spesso lo fa perché lo sente perfettamente congruente al proprio modo di essere.

Ovadia Hitler

Fa appello al ventre molle della società, ai sentimenti di ingiustizia e sopruso. Promette soluzioni immediate a problemi apparentemente irrisolvibili ed è pronto a puntare il dito contro i veri responsabili dello sfacelo del Paese. Ma il populista ama davvero il popolo? E il populismo è di destra o di sinistra? Esistono caratteristiche psicologiche o sociali in grado di spiegare l’adesione a un movimento populista e la crescita di quest’ultimo?

“Il populismo ha ispirato, in anni recenti, una gran quantità di studi in ambito politico, sociologico e psicologico. È stato di volta in volta descritto come una patologia psichiatrica, uno stile comunicativo, una sindrome o una dottrina” spiega il politologo Ben Stanley sul Journal of Political Ideologies. “A mio avviso è una ideologia a pieno titolo, nel senso che costruisce un universo politico basato su alcuni concetti chiave, ma è una ideologia sottile per natura, nel senso che non è in grado di stare in piedi da sola dal punto di vista pratico: è incapace di generare programmi di intervento coerenti in grado di fornire soluzioni a questioni politiche cruciali. In questo senso non è né di destra né di sinistra, ma si aggrega ad altre ideologie, diventando così un populismo di destra o di sinistra”.

Persino le enciclopedie e i vocabolari non riescono a mettersi d’accordo sulla natura di questo fenomeno. Se la Treccani lo definisce “atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi oppure, in riferimento all’America Latina, forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall'economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione”, il dizionario Garzanti, molto più laconicamente, si avvicina a ciò che intende per populismo il linguaggio comune, ovvero un “atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente”.

In effetti nessuno è riuscito del tutto a dirimere quella che lo stesso Stanley definisce “la natura mercuriale del populismo” e le sue vere cause rimangono in gran parte da scoprire. Hanspeter Kriesi, sociologo dello European University Institute di Firenze, per esempio, ha suggerito, grazie a una serie di studi, che una spiegazione risieda nell’impatto della globalizzazione sui bisogni dei votanti. Altri studiosi, come Carlos de la Torre, che si sono concentrati sui populismi latinoamericani, li attribuiscono all’eredità coloniale e alla conseguente corruzione.

In sostanza, se lo si guarda con gli strumenti della sociologia, il populismo ha, in ogni luogo in cui si manifesta, diverse cause e radici storiche. Gli studi che guardano al fenomeno da un punto di vista della massa non possono che rilevare come la maggior parte degli aderenti a movimenti populisti ha processi cognitivi simili e comportamenti facilmente deducibili dal contesto culturale.

Più recentemente, gli psicologi sociali si sono concentrati su quello che viene chiamato il “microlivello”, ovvero sugli aspetti individuali dell’adesione a ideologie con tali caratteristiche. Agnes Akkerman e i suoi colleghi dell’Università di Amsterdam hanno valutato la natura populista di un campione di 600 olandesi sulla base di un modello personologico in grado di distinguere le personalità populiste da quelle pluraliste ed elitiste, riconducendo con estrema precisione i risultati ottenuti al voto espresso nelle ultime elezioni. Chi risultava avere una personalità fortemente populista aveva votato per il Partito populista olandese, per il Partito della libertà (caratterizzato da una forte impronta xenofoba) o, in misura minore, per il Partito socialista. Di nuovo l’analisi grezza dimostra che i populisti non votano necessariamente tutti per lo stesso partito, ma per partiti che hanno in comune alcune caratteristiche, tra le quali quella di essere all’opposizione rispetto al Governo in carica.

L’attitudine populista da sola, però, non basta: per attivare un comportamento di voto o di azione di tipo populista serve un leader che la incanali. Un meccanismo chiave, spiega Kirk Hawkins della Brigham Young University, nello Utah, è l’abilità del leader ad attribuire colpe a specifici attori (politici con nome e cognome, gruppi etnici, religiosi o sociali) e/o a forze o eventi impersonali (come la crisi economica o la globalizzazione).

Ethan Busby e colleghi della Northwestern University hanno condotto un esperimento di psicologia sociale per generare un atteggiamento populista nella loro stessa accademia. La loro ipotesi di lavoro è che in ciascuno di noi alberghi un set di atteggiamenti populisti che richiedono solo il contesto giusto per essere elicitati. Il primo fattore esterno scatenante è una minaccia alla comunità all’interno della quale si vive, una minaccia reale o immaginaria che vada però a minare i valori sui quali la comunità stessa si basa. È il caso della recente ondata migratoria che, secondo questa teoria, spiega in gran parte la crescita dei movimenti populisti in tutta Europa. “La minaccia da sola però non basta” spiega Busby. “Serve un linguaggio che faccia leva sulla paura e che indichi un colpevole preciso. Serve un leader che inquadri i timori all’interno di un complotto o piano tenuto in mano da una élite potente”.

È nel momento del passaggio all’azione che populismo e complottismo si tengono la mano e risultano ambedue necessari perché un movimento populista raccolga una valanga di voti e arrivi al potere. “Il livello successivo all’azione di voto è quello della cooperazione: una volta slatentizzate le pulsioni populiste individuali, servono alcuni elementi catalizzatori che aggreghino le persone intorno a sé e poi all’interno di un gruppo o movimento, continuando a dare loro l’impressione di avere il completo controllo del suo andamento” dice Busby. “La cooperazione, dicono i modelli di psicologia sociale, si manifesta più facilmente tra persone che condividono lo stesso ambito valoriale, e questo si riscontra anche nei nostri studi: l’attitudine populista fa da collante e sprona a impegnarsi in prima persona”.

Per dimostrare che la catena causale è proprio quella descritta sul piano teorico, Busby ha messo a punto una serie di giochi economici, riuscendo a generare fenomeni di aggregazione populista tra i partecipanti. Per essere certo di ciò che stava misurando, ha utilizzato una sorta di check-list del populismo messa a punto da Hawkins che si basa su affermazioni quali: la politica è la lotta tra il bene e il male; i politici in Parlamento devono seguire il volere del popolo; la forza di alcuni interessi personali impedisce al nostro Paese di progredire; la gente, e non i politici, dovrebbe prendere le decisioni più importanti; preferisco essere rappresentato da un cittadino comune che da un politico con esperienza; la differenza politica tra la gente comune e le élite è molto maggiore della differenza tra due persone comuni; i politici parlano troppo e agiscono troppo poco; ciò che la gente chiama compromesso in politica è solo un modo per vendere i propri principi al miglior offerente; la diversità limita la libertà; è importante ascoltare l’opinione di tutti; il nostro Paese funzionerebbe meglio se si lasciassero le decisioni in mano a imprenditori di successo; il nostro Paese funzionerebbe meglio se fosse governato da tecnici non eletti; non ci si può fidare della gente comune nel prendere decisioni; i politici dovrebbero guidare il popolo e non viceversa.

Avete letto bene: la prima parte di questa lista afferma esattamente l’opposto di ciò che dice la seconda. Eppure si tratta di assunti che appartengono tutti a movimenti populisti: i primi a quelli di orientamento più popolare/partecipativo, i secondi a movimenti più simili a quelli dell’ultradestra. Non a caso tutti i grandi regimi del Novecento nascono e si sviluppano grazie a una forte dose di populismo e non è raro che un movimento che nasce con le caratteristiche della democrazia partecipata di stampo populista si evolva in seguito in un movimento autoritario.

Il 4 gennaio del 2014 l’Economist ha messo in copertina un gruppetto di politici populisti europei, raffigurati mentre galleggiano in una teiera. Il riferimento esplicito è ai Tea Party americani e i quattro sono rappresentanti del Partito della Libertà olandese, del Partito della Gente Danese, del tedesco Die Linke (l’unico di sinistra) e del francese Front National. Si tratta di partiti diversissimi tra loro: alcuni sono pro-gay, altri fortemente omofobi; alcuni liberisti arrabbiati e altri sostenitori del welfare.

In comune, dice Bert Bakker dell’Università di Amsterdam nello studio “Le radici psicologiche del voto populista” pubblicato l’anno scorso sullo European Journal of Political Research, hanno il messaggio contro l’establishment: per tutti, i politici in carica sono al lavoro solo per il proprio tornaconto e si disinteressano del tutto delle sorti della gente comune. Il messaggio contro l’establishment spiega la crescita di quello che viene chiamato “cinismo politico”, ovvero la perdita di fiducia nelle istituzioni, che si fonde con una ideologia presente prima della nascita del movimento populista. Spesso, affermano gli studi di Arzheimer e Carter, due sociologi statunitensi, nei populisti questi elementi si combinano con uno status sociale ed economico basso.

“Secondo i modelli della psicologia politica, cinismo e ideologie sono radicati nei tratti di personalità e gli elettori tendono a votare il politico più simile a loro, quello congruente col loro modo di vivere e relazionarsi col mondo” spiega ancora Bakker. “Per questo abbiamo usato un modello di analisi della personalità molto noto e diffuso, il Big Five, e abbiamo cercato di correlare i tratti personologici alle tendenze populiste”. Il modello Big Five si articola in cinque fattori principali (neuroticismo, estroversione, apertura, piacevolezza, consapevolezza). Secondo l’analisi di Bakker, il populismo si correla con la piacevolezza (che a sua volta si compone di fiducia, schiettezza, altruismo, compiacenza, modestia e tenacia intellettuale).

“Il nostro studio va controcorrente rispetto al pensiero comune perché dimostra che il populista non è sempre una persona autoritaria e un sostenitore di comportamenti fascisti, e che dietro il voto populista non c’è sempre e solo una scelta irrazionale, ma talvolta un comportamento congruente con i propri tratti di personalità, una tensione a risolvere la frustrazione per sé e per gli altri”. Una ulteriore analisi per sottogruppi dimostra, infatti, che tra i populisti con il minor grado di piacevolezza al test dei Big Five ci sono coloro che votano i partiti più di destra, come il Tea Party statunitense, mentre quelli con il grado maggiore di piacevolezza sono i votanti di Die LInke, il movimento populista di sinistra tedesco.

Nicola Demertzis, professore dell’Università nazionale di Atene, dice che lo studio di Bakker va nella giusta direzione, ma che ne servono molti altri perché i risultati non sono sempre congruenti quando li si ripete in altri contesti e altri Paesi, come per esempio l’Italia, dove negli ultimi vent’anni abbiamo vissuto la crescita di movimenti populisti di matrice totalmente opposta come il berlusconismo e i 5Stelle. “La sociologia si è tenuta finora alla larga dall’analisi delle emozioni in politica, non avendo gli strumenti per capirle. Ma gli sviluppi della psicologia sociale e cognitiva hanno dimostrato che la politica è anche una questione di emozioni. La prospettiva emotiva deve essere integrata all’esame dei fenomeni politici, con l’accortezza di non fare l’opposto, ovvero di non ricondurre tutta la politica a una questione di emozioni, lasciando indietro i determinanti sociali ed economici delle scelte dei singoli votanti”.

È quanto stanno cercando di fare alcuni analisti statunitensi di fronte all’ascesa, apparentemente inspiegabile, e per alcuni preoccupante, di Donald Trump, considerato fino a pochi mesi fa un candidato quanto meno improbabile. “Trump è un Narcisista Estremo” spiega Joseph Burgo, psicoterapeuta e commentatore di Psychology Today, una delle più diffuse riviste di psicologia statunitensi. “E proprio questo narcisismo costituisce l’attrattiva per una gran parte dei votanti. Non sto parlando del suo incredibile parrucchino. Sto parlando di un ego ipertrofico, che può contare su un set di difese (l’indignazione del giusto, la riprovazione e il disprezzo) per evitare verità faticose su se stesso. Per i votanti che si sentono vulnerabili di fronte a un rapido cambiamento, che sono preoccupati per il loro futuro economico e per il loro livello sociale, o sono spaventati dalla complessità di un mondo afflitto da problemi apparentemente insormontabili, Trump offre un modello semplicistico per far svanire i dubbi e per difendere se stessi dall’ansia esistenziale”.

L’ascesa di Trump è quindi la fusione perfetta tra populismo e narcisismo: il primo offre risposte semplici per questioni complesse e promuove una mentalità “noi-contro-di-loro”. Il narcisismo protegge l’individuo dal dubbio e, in buona sostanza, dalla necessità di cambiare opinione e mostrare flessibilità e adattabilità.

Un’interpretazione pessimistica coincidente con quella dello psicanalista junghiano Luigi Zoja che, nel suo libro Paranoia (Bollati Boringhieri, 2011), racconta i totalitarismi della storia attraverso la lente della psicopatologia. I movimenti totalitari sono paranoie collettive nate dal populismo, guidate da un leader che è un narcisista inespresso, incapace di letture interiori, convinto che ogni male gli derivi dall’altro, dal “nemico”. Se il paranoide è carismatico, convince le folle e dà inizio a un contagio collettivo che può esser causa di grandi tragedie, dalle guerre agli stermini.

Come dice Zoja con grande efficacia, “la paranoia classificata come clinica fa soffrire dolorosamente un soggetto e i suoi prossimi. Ma la paranoia aldilà dei cancelli, confusa nella vita di ogni giorno, sparpagliata in ogni piega della società, ha sterminato più masse umane delle epidemie di peste, ha umiliato e annientato mentalmente più uomini della collera di Dio”.