'Fate in fretta', ma che cosa? A congiurare contro le riforme necessarie a rimediare alle persistenti fragilità dell’economia italiana non sono 'poteri forti', cioè grandi conglomerati di influenza, ma una miriade di punti di resistenza naturalmente coalizzati a difesa dello status quo. Andare avanti veloce sulla strada delle riforme significa aggiornare l’elenco dei tabù da rottamare.

palma Renzi sito

La crisi economica, in cui l'Italia è entrata a una velocità doppia e da cui sta uscendo a un passo inferiore a quello dei paesi virtuosi, non è una responsabilità dei governi che hanno dovuto far fronte alle sue conseguenze e iniziare (solo iniziare) a rimediare alle sue cause. Non è stato Monti a impoverire il Paese con manovre "lacrime-e-sangue", sbilanciate sul lato fiscale. Non è Renzi oggi a fallire nell'obiettivo di un più rapido rilancio e a doversi, suo malgrado, accontentare di una crescita "zero virgola".

Il cosiddetto short-termismo non porta soltanto a privilegiare le scelte che vanno più rapidamente all'incasso e dispiegano i propri effetti tossici solo nel medio-lungo periodo. Porta anche gli elettori a equivocare le responsabilità degli azzardi e ad intestarle all'esecutivo in carica, o a quello più esposto ai loro effetti, come se dalle scelte politiche - regolatorie, fiscali, di bilancio...- non derivassero vincoli intertemporali e ogni giorno fosse invece possibile ripartire da zero, lasciandosi alle spalle il passato e liberandosi del suo peso.

Dunque il corollario dello short-termismo è un certo facilismo politico, l'illusione che problemi annosi e complessi possano trovare soluzioni rapide e miracolose. È il circolo vizioso del senso comune, che è sempre, manzonianamente, un nemico del buon senso, e aggrava i problemi con la promessa di risolverli o addirittura di dissolverli, con un tratto di penna.

La monografia di questo numero di Strade è dedicata ai fattori della persistente fragilità economica italiana e del nuovo "rischio Italia", che sembra tornare ad affacciarsi nella percezione dei mercati e continua a essere sorvegliato, con malcelata preoccupazione, da parte delle autorità di Bruxelles.

Il vero rischio fatale, anche in questo caso, è però che, scambiando la causa con l'effetto, si addebitino ai mercati e ai vertici dell'Ue e alla loro comune "cospirazione" le difficoltà dell'Italia e che a farlo, per esigenze di consenso, siano trascinati anche i politici consapevoli che se si rompesse il legame di fiducia con gli investitori e i partner internazionali - o si deteriorasse la stabilità politica europea - l'Italia finirebbe in caduta libera nel vuoto del bla bla bla sovranista.

Di fronte a tutto questo, occorrerebbe onestamente riconoscere la duplice natura “strutturale” delle nostre perduranti debolezze. In senso economico, come caratteristiche ormai consustanziate alla costituzione economica del Paese, non superabili con interventi meramente correttivi e non “chirurgici”. In senso politico, come suggello e prova quasi documentale di quella logica di scambio che vede nelle urne l'Italia economicamente perdente (o perduta) farsi elettoralmente vincente, o comunque determinante. Detto in altri termini, il sistema della rappresentanza (come peraltro quello dell'informazione) oggi continua a riflettere l'immagine di un'Italia che su molti e fondamentali dossier di riforma non incita, ma resiste al cambiamento. Con delle differenze e alcune importanti brecce che si vanno aprendo, ma in un quadro di sostanziale tenuta del sistema.

Alcuni poteri di veto, come quelli del sindacato o della politica locale (screditata più di quella nazionale), si stanno rapidamente sgretolando: non è un caso che l'azione riformatrice dell'attuale esecutivo si sia espressa con più potenza e pienezza sul piano delle politiche del lavoro, nonché sul ridisegno dell'architettura istituzionale e sulla ripartizione dei poteri tra centro e periferia. Ma altri poteri di veto, meno visibili e "monumentali", logorano in un negoziato micro-settoriale qualunque istanza di riforma, in particolare nei campi (dalle liberalizzazioni, al nuovo welfare, al funzionamento della giustizia) in cui il costo zero (o positivo) dal punto di vista finanziario comporta un costo politico insostenibile anche per un governo orgogliosamente rottamatore.

A congiurare contro le riforme, peraltro, non sono più “poteri forti” in senso tradizionale, ma interessi diffusi e polverizzati, determinati a preservare il proprio spazio di garanzia, la propria rendita, la propria legittimazione speciale; non grandi conglomerati di influenza, anche economica, ma una miriade di punti di resistenza naturalmente coalizzati a difesa dello status quo. A rendere ancora irriformabile, in molti settori, l'Italia non è solo il particolare riguardo che la politica riserva a questo eterogeneo “fronte del NO” e ai suoi molteplici rappresentanti, ma l'impossibilità di fronteggiarne le pretese rispettando il lessico "senso-comunista" cui la vulgata antipolitica costringe la politica e cui quest'ultima si adegua per malintese esigenze di legittimazione.

Come la novità è il surrogato trasformistico dell'innovazione, anche l'impazienza con cui si esige che le cose cambino da un giorno all'altro, come per incanto, dissimula la natura doppiamente "strutturale" dei ritardi, dei passi indietro e delle approssimazioni con cui l'Italia politica affronta (e si sente condannata ad affrontare) la sfida delle riforme economico-sociali. Col freno a mano tirato e le mani legate proprio dalla “dialettica democratica”.

Si pensi alla precipitosa marcia indietro fatta recentemente dal governo sul tema della reversibilità pensionistica, dal cui riordino sarebbero dovute derivare risorse preziose per misure urgenti e ancora sperimentali di contrasto della povertà. Ha vinto, senza neppure giocare la partita, il diritto acquisito di vedove e vedovi a incassare parte della pensione del coniuge defunto a prescindere da ogni valutazione sull’effettivo diritto del superstite, in base alle sue condizioni economiche, al godimento di una prestazione assistenziale. O si pensi alla vera e propria truffa ideologica della questione “esodati”, termine che nel linguaggio comune è passato dal designare quanti avevano accettato dimissioni incentivate ed erano stati spiazzati dal differimento dell’età pensionabile al ricomprendere tutti coloro che attendevano la decorrenza della pensione con le regole previgenti anche parecchi (tre, quattro, cinque…) anni dopo la data di approvazione della legge Fornero.

Oggi "fare in fretta", il ricorrente e drammatico ammonimento ripetuto a ogni governo in tono d’emergenza, non significa affrettarsi a fare ciò su cui c'è un generale e incontestato consenso da parte dell'opinione pubblica e che per qualche ragione inconfessata la politica recalcitrante si ostina a non realizzare o a differire. Significa corrispondere all'urgenza - a quella più urgente di tutte, se ci si scusa il gioco di parole - di trovare un modo diverso, più veritiero ed efficiente, per affrontare cause e conseguenze dei nostri perenni ritardi. Non esiste alcuna lista pacifica di “cose da fare”, ma c’è un elenco assai più corposo di proibizioni, rimozioni ed evitamenti in cui le riforme finiscono intrappolate.

Andare avanti veloce sulla sfida delle riforme significa affrontare questi nodi e aggiornare l’elenco dei tabù da rottamare.