Dal 2008 a oggi, i finanziamenti italiani alla ricerca sono diminuiti di quasi 2 miliardi di euro. Nonostante l’Europa ci esorti a investire di più nel settore, la situazione si fa sempre più drammatica: in assenza di qualsiasi strategia, costretti a navigare a vista, negli ultimi 10 anni migliaia di ricercatori sono fuggiti dalla barca che affonda. Signori, è stato un piacere ricercare con voi.

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Titolo: Salviamo la ricerca italiana. Svolgimento: quasi 52.000 firme. La petizione diffusa sulla piattaforma Change.org e nata dalla lettera a Nature del fisico italiano Giorgio Parisi, però, punta più in alto, ad almeno 75.000 sottoscrizioni. Con un obiettivo dichiarato: chiedere al governo italiano di rispettare i parametri definiti nel Consiglio Europeo di Barcellona e decidersi a investire il 3% del Pil in ricerca e sviluppo.

E se oltre 69 scienziati hanno subito aderito all'iniziativa, le ragioni per cui essa nasce sono purtroppo arcinote: a partire dal 2008 i fondi statali sono calati del 20% - circa 2 miliardi di euro – e il numero dei docenti è diminuito della stessa percentuale: come diretta conseguenza del pesante disinvestimento nel settore, circa 15mila ricercatori italiani sono dovuti andare all'estero. Inoltre, spiegano gli autori della petizione, i finanziamenti europei non possono sostituire i mancati fondi del Governo. Insomma, scrive Parisi, “negli ultimi anni stiamo assistendo alla distruzione sistematica della ricerca e dell'Università pubblica e la situazione sta diventando sempre più drammatica, nell'indifferenza generale”. Non è solo ingiusto, conclude, ma è folle.

Il fisico però non è solo, ma in compagnia delle decine di migliaia di firmatari della petizione. A condividere il tono di protesta c'è anche Giuseppe Mingione: 43 anni, ordinario di analisi matematica all'Università di Parma, uno dei 99 matematici più famosi e citati al mondo. “Non sono un medico o un ingegnere – ha spiegato a Repubblica – sono un matematico, dipendo totalmente dai soldi pubblici. Ma il fondo per la ricerca di base è stato praticamente azzerato”. Non solo: se i suoi colleghi internazionali, infatti, possono contare su sostegni onerosi – circa 250mila euro l'anno – “negli ultimi 4 anni, per le mie ricerche – racconta – avrò preso 2-3mila euro in tutto”.

Cifre irrisorie. Tanto che Mingione ha deciso di non restare inerme ad assistere alla denigrazione del proprio lavoro, ma ha scelto di boicottare la Vqr, il processo di valutazione della qualità della ricerca a valle del quale è stilata la classifica delle Università italiane, strumento utile per assegnare parte del fondo di finanziamento ordinario. Su Twitter c'è chi si è unito imbracciando l'hashtag #Vqrstaiserena. Mingione non ha dubbi: “Quando si arriva a questi livelli di mortificazione professionale qualunque protesta va bene”.

Chissà, poi, se tra le forme di rivolta è legittimo considerare anche la ribellione via social media. Sembrerebbe di sì. Almeno nel caso di Roberta D'Alessandro, ricercatrice italiana trasferita in Olanda, che all'esultazione del Ministro Giannini per i successi che la riguardano personalmente, ha risposto su Facebook: “Abbia almeno il garbo di non unire al danno la beffa e di non appropriarsi di risultati che italiani non sono”.

Non bastano, infatti, il luogo di nascita e la carta d’identità di un ricercatore per definire la provenienza e la nazionalità dei suoi lavori: quello che conta è il paese finanziatore. E nel caso di D'Alessandro i fondi ERC – European Research Council – di cui è assegnataria sono olandesi e poco hanno a che vedere, quindi, con il Miur. L'Italia, secondo la scienziata, dei risultati della ricerca evidentemente può fare a meno. Anche se proprio in questo settore l'Europa, sempre di manica stretta, ci ha invitato a investire di più.

Non solo, infatti, il confronto con gli altri paesi del continente è avvilente – tanto per intenderci: sul totale dei ricercatori UE il 20,5% è tedesco, il 17% britannico, il 13% francese, l'8% spagnolo e soltanto il 6% italiano. Ma c'è di più. Secondo Arianna Montorsi, del Politecnico di Torino, intervenuta al dibattito "Salviamo la ricerca italiana", a La Sapienza, nei programmi europei 2007-2013 l'Italia ha perso circa il 30% dell'investimento e per Horizon 2020 – insieme dei bandi di settore targati UE e legati al ciclo di fondi in corso – già si stima una perdita di 3-5miliardi di euro in 7 anni.

E non basterebbe il grandioso progetto dello Human Technopole nell'ex area Expo a far sorridere i ricercatori – anche se, secondo il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, si tratterebbe di un piano nientemeno che petaloso. La ricerca italiana chiede la torta, non le ciliegine: ossia più strategia. Più si snocciolano i dati, infatti, più è evidente la mancanza di una visione a lungo termine.

Se gli ERC sono le star del settore, i PRIN – Progetti di Rilevante Interesse Nazionale – valgono altrettanto. Eppure solo nel 2015, dopo ben 3 anni di stallo, sono stati sbloccati, e devono riuscire a coprire tutte le aree dello scibile umano con soli 92milioni di euro disponibili per i progetti triennali.

Una cifra insufficiente, scrive su Repubblica Elena Cattaneo, decente dell'Università Statale di Milano e senatore a vita. Inoltre, spiega, nel 2016 al fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica del Miur sono stati destinati solo 58,8 milioni, con una riduzione di circa due milioni di euro ogni anno, fino al 2018. Mentre la legge di stabilità ha tolto al Miur i finanziamenti destinati alle iniziative per la cultura scientifica.

Oltre alla ricerca universitaria, però, anche quella finalizzata avrebbe i suoi problemi. Quali? Lo ha già spiegato Daniela Ovadia su Le Scienze. I bandi per la ricerca finalizzata del Miur, ha scritto, sono come i PRIN per le Università: essenziali. Erogati dal Ministero della Salute, servirebbero a sostenere tutti coloro che in Italia lavorano in ambito clinico e biomedico e presidiano le corsie e i centri di cura. In questo ambito, ovviamente, giocano un ruolo chiave le Regioni, essendo la sanità tema di loro competenza. Ma, come è noto, spesso le Regioni non navigano nell'oro e hanno serie difficoltà a fare fronte agli impegni economici.

La conseguenza? Trattandosi di bandi cofinanziati, i progetti che accedono ai fondi potrebbero subire una rimodulazione economica dopo una prima fase di approvazione. È già accaduto, scrive Ovadia, per esempio nel 2008, quando due progetti che prevedevano il ricorso alla robotica – e quindi dispendiosi - hanno incassato solo metà dei contanti previsti e sono stati trasformati in studi preliminari sull'uso della tecnologia.

Se la soluzione ai problemi, però, è fondamentalmente politica, secondo Piero Angela nella ricerca italiana esisterebbe un ulteriore problema: non è abbastanza nazional-popolare. La ricerca non è pop, non è sexy, non è, in sostanza, adeguatamente comunicata. E non si tratta di una questione secondaria: basti pensare come, alla fuga dei cervelli segnalata dal professor Parisi, si aggiunga la riduzione delle immatricolazioni universitarie, scese tra il 2008 e il 2014 del 20%, e dei corsi di studio, diminuiti nello stesso periodo del 18%.

È così, in sostanza, che nasce una nuova figura, tipica del paesaggio universitario italiano e della fauna locale: il ricercatore-cacciatore. Ha una missione: inseguire i fondi. Come si fa, qual è la tecnica? Ogni 3-4 anni, hanno raccontato i ricercatori testimonial dell'evento de La Sapienza, bisogna spostarsi altrove, in zone più “fertili” per la ricerca, a caccia di nuovi finanziamenti. Diventati da queste parti una specie in estinzione.