L’osservazione empirica, affiancata da molti studi, dimostra che in Italia, salvo poche lodevoli eccezioni, non esistono progetti urbanistici slegati dalla logica del consumo di suolo e delle nuove costruzioni. Una storia che si ripete, con pochissime variazioni, dal secondo dopoguerra. Così i soliti pochi si arricchiscono a spese del territorio e della sicurezza di tutti.

Lilli urbanistica sito

“Della speculazione sapevo. Anche se la costa salentina dovrebbe figurare tra le visite scolastiche obbligatorie, per vedere come si può ingiuriare e distruggere una delle terre più belle del mondo. Anche se la Riviera di Ponente è più soffocante della periferia di Milano. Non sono però le cementificazioni intensive quelle che feriscono di più. No, quello che offende è la totale casualità, i villaggi e le lottizzazioni sorti a casaccio qua e là, l’arbitrio di ognuno che rovina il bene di tutti, gli sfizi da geometra e da ragioniere che la fanno da padrone. L’assenza di governo, di lungimiranza, di scelte”.

Scriveva così Michele Serra nel 1986, al termine del suo viaggio per l’Unità lungo le coste italiane. Un viaggio a puntate raccolto nel libro “Tutti al mare”. Un periplo lungo lo stivale alla ricerca del Paesaggio perduto, lungo le coste e anche molte delle aree interne in progressiva impermeabilizzazione. Come dimostrano in maniera inequivocabile i recenti dossier di Legambiente e dell’Ispra, si è costruito e si continua a farlo. Ovunque. Anche dove non dovrebbe essere possibile.

Dal palazzo a cinque piani costruito negli anni Cinquanta nell’alveo del torrente Chiaravagna, a Genova, agli edifici abusivi realizzati recentemente nelle aree a rischio idrogeologico di Giampilieri Superiore e Scaletta Zanclea, in provincia di Messina. Colpa di un abusivismo edilizio troppo spesso senza necessario controllo, ma anche di una pianificazione sbagliata, ostinatamente indirizzata ad aggiungere nuove cubature.

PRG votati ad espandere centri urbani e ad agevolare la partica del costruire. Variazioni di destinazioni d’uso benevolmente inclini a monetizzare oltre ogni misura quel che non lo è, se non in parte. Piani casa regionali che sembrano avere come unico obiettivo quello di accrescere il costruito. Dal Lazio fino alla Liguria, passando per il Veneto, le politiche urbanistiche sono fortemente orientate ad utilizzare il territorio per fare cassa. Principalmente attraverso gli oneri di urbanizzazione. Ma anche sfruttando, di tanto in tanto, lo strumento del condono.

Non è necessario partire dalla ricostruzione del secondo dopoguerra, anche se inequivocabilmente le radici sono da ricercare lì. Dal boom, insomma. Da quel processo che tra gli anni Sessanta-Settanta produrrà una serie di quartieri che hanno segnato la storia di molte città. Da Torino Mirafiori a Milano Gratosoglio a Genova Quezzi.

Una vera e propria rovina paesaggistica, forse senza eguali in Europa. È sufficiente gettare un’occhiata agli ultimi tre/quattro decenni. Qualche volta la débacle si può leggere in molto meno. E non si tratta di sensazioni. I numeri sono chiari. A Roma, ad esempio, dalla vigilia del Giubileo del 2000 ad oggi, quella che Antonio Cederna chiamava “la repellente cresta di cemento e asfalto” si è estesa di 38 milioni di metri quadri.

Altrove non va meglio. Il consumo di suolo procede spedito. L’idea dominante è che lo sviluppo sia in gran parte correlato all’edilizia. L’Urbanistica diventa spesso la pratica che pianifica aggiunte di cubature, dimenticando tutte le altre funzioni che appartengono a quella scienza. Evitando di valutare gli squilibri che l’uso scorretto del suolo produce. Dal dissesto idrogeologico dei territori alla disgregazione sociale nelle periferie. Più indirettamente alla marginalizzazione del patrimonio culturale, soprattutto di quello immobiliare.

Un autentico disastro, anche culturale, orchestrato da affaristi, piccoli e grandi. Scempi di ogni tipo autorizzati da una politica non di rado troppo compiacente. Realizzati da assessorati all’urbanistica e ai lavori pubblici costituiti da professionisti senza qualità. Una devastazione ragionata, anche se irragionevole. Pericolosa perché difficile da combattere. Forse ormai al di là delle misure. Anche quando ci dovesse essere una “legge per il contenimento del consumo di suolo”, di cui si parla dal 2012, e che ora, dopo il voto in Commissione Ambiente e Agricoltura, verrà discussa in Aula.

Già, perché il problema non sembra essere soltanto l’esistenza di uno strumento che ostacoli l’impermeabilizzazione di nuovo suolo, sulla cui reale efficacia peraltro esistono alcuni dubbi, ma anche la ricettività da parte delle diverse amministrazioni sul territorio. Ogni misura, per essere efficace, deve trovare una giusta accoglienza, altrimenti il rischio è che i risultati possano essere inferiori alle attese. E, da quel che si può osservare, la riduzione (peraltro non lo stop) del consumo di suolo non è tema di grande appeal presso i Comuni. Piccoli e grandi, senza grande differenza.

Nel febbraio 2012 il Forum di “Salviamo il Paesaggio-Difendiamo i Territori” ha lanciato un censimento del cemento. Una campagna nazionale indirizzata a tutti i Comuni italiani. La risposta? Ridottissima. L’Italia è un Paese malato. A dispetto di Expo 2015 e degli interventi promessi anche da questo Governo a favore della messa in sicurezza dei territori a rischio. Perché l’edilizia continua ad essere un groviglio inestricabile di affari e interessi. Mentre si è andata progressivamente perdendo l’idea della Città.

Nel Medioevo i centri urbani esprimevano una visione teologica, nel Rinascimento il rigore geometrico. E oggi che cos’è che ci comunicano? Ormai “emerge un tutto indifferenziato, emanazione di un’economia del consumo”, scrive Raffaele Milani in “L’arte della città. Filosofia, natura, architettura” (Mulino, Bologna, pagg. 170, euro 18,00). Non esiste quasi più un’idea di città. A Roma più che a Milano. A Genova più che a Torino.

Contemporaneamente è “evaporata” la convinzione che hinterland e territori comunali dovessero essere spazi da organizzare, soppesando i vuoti e i pieni, e non luoghi da cannibalizzare. Così l’urbanistica ha finito col considerare se stessa una disciplina al servizio del potere e non dei cittadini. È diventata “una specie di assistente dell’economia immobiliare”, scrive Franco La Cecla in “Contro l’urbanistica. La cultura delle città” (Einaudi, Torino, pagg. 158, euro 12,00).

L’urbanistica “che si occupa di separare, zonizzare, controllare, chiudere dietro cancelli i ricchi e le classi medie e dietro paraventi di lamiera gli slums” è una disciplina che ha rinnegato se stessa, disumanizzandosi fino al punto di negare all’agricoltura il diritto di esistere. Un establishing shot, insomma un’inquadratura totale, sull’Italia dimostra quanto l’agricoltura sia in affanno. Certo non solo a causa delle folli politiche urbanistiche degli ultimi decenni. Ma senza dubbio anche per questo. Il Paesaggio è stato continuamente manomesso in nome di un’urbanistica che si declina con troppa frequenza attraverso l’edilizia.

“Un terreno da duecentomila metri cubi”, cioè “centinaia di unità abitative, negozi, strade, strutture direzionali”. Insomma un’intera città avveniristica, dal nulla. È il progetto a cui pone mano Franco Rampazzo a Savignano, tra Vicenza e Treviso. Servono soldi, appoggi politici. Questo lo scenario che apre “Effetto domino” (Einaudi, pagg. 228, euro 19,50) il romanzo di Romolo Bugaro. Sembra finzione letteraria. Invece accade, frequentemente. L’Italia è un progetto di paese per affaristi. Nel quale non c’è più spazio per l’Urbanistica.