Le elezioni di novembre in Turchia sono state un trionfo per il partito del capo dello Stato Erdogan. Ora l’AKP dell’ex premier è a un passo dal poter cambiare la Costituzione senza dover stringere accordi “scomodi”, e molti turchi, nelle urne, hanno dimostrato di preferire la sicurezza dell’uomo forte all’incertezza della libertà. Complici anche le opposizioni, sfilacciate e poco convincenti, quando non, come il PKK, apertamente violente.

Ottaviani Erdogan sito

L’Akp, il Partito islamico-moderato per la Giustizia e lo Sviluppo, ha vinto con ampio margine le elezioni politiche in Turchia, in barba a tutti i sondaggi secondo i quali avrebbe dovuto raggiungere massimo il 43% dei consensi. Invece ha toccato il 49,5%, crescendo anche in collegi solitamente feudi di altri partiti.

Non è un’esagerazione se si afferma che questo risultato sia tutto merito del presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, per la precisione, per il ricordo che il popolo turco ha dell’ex premier più che dell’attuale capo dello Stato. Certo, non verranno ricordate come le elezioni più trasparenti nella storia della Repubblica turca. Ma, anche a giugno, l’Akp aveva raggiunto un ragguardevole 41%, il che significa che il “modello Erdogan”, nonostante il tempo, gli scandali e gravi accuse come quella di spalleggiare Isis, funziona ancora. E, se questo succede, è bene spendere due parole sulle cause che hanno portato il Presidente a questo risultato che, di fatto, gli potrebbe consegnare in breve il potere assoluto con la riforma in senso presidenzialista della Costituzione. A iniziare dagli errori dell’opposizione.

Il Partito repubblicano del Popolo (Chp) e il Partito curdo democratico dei Popoli (Hdp) hanno fatto il loro primo sbaglio lo scorso sette giugno, pensando di aver assestato un duro colpo al predominio di Recep Tayyip Erdogan sulla scena politica turca. Il secondo lo hanno commesso in doppia battuta, prima evitando di trovare un accordo con l’Akp per formare una coalizione di governo - perdendo quindi l’occasione di sfruttare al meglio un momento di debolezza nel partito di maggioranza - e in secondo luogo senza nemmeno provare a costruire, se non un’alternativa al Presidente, almeno una piattaforma di opposizione più compatta.

L’obiettivo, occorre dirlo, era difficilmente realizzabile, vista la diversità e ostilità ontologica dei nazionalisti del Chp nei confronti dei curdi. Ma, nell’insieme, l’opposizione ha dato l’impressione di essere troppo sfilacciata e poco determinata. Certo non una garanzia per l’elettorato turco, abituato alla granitica solidità dei governi a guida Erdogan, e questo alle urne ha avuto un peso. Se a ciò aggiungiamo una campagna elettorale poco incisiva, a causa di una presenza minore sui media rispetto all’Akp e di mezzi a disposizione di gran lunga inferiori agli islamico-moderati, allora ci rendiamo conto di come, per perdere, l’opposizione ci abbia messo anche del suo.

Dall’altra parte abbiamo un partito di maggioranza che ha giocato al meglio le sue carte. Le elezioni rimarranno viziate dall’accusa di brogli e scorrettezze ai seggi, e di certo la censura della stampa non vicina a Erdogan ha fatto in modo che si andasse al voto in un’atmosfera di tensione, dove la paura del terrorismo e il timore per le sorti economiche del Paese hanno giocato un ruolo determinante.

Rimane il fatto, però, che l’Akp ha preso il 49,5% dei consensi: se questo è successo, malelingue a parte, ci sono motivi ben precisi. Il primo è che il partito di maggioranza ha giocato le sue carte meglio che poteva, a iniziare dalla campagna elettorale. Pochi giorni prima del voto, il vicepremier con delega economica, Ali Babacan, in un talk-show televisivo, aveva detto in diretta che l’Akp aveva compreso tutti gli sbagli fatti in occasione delle politiche di giugno, quando aveva preso “appena” il 41% dei consensi.

Il primo provvedimento l’ha preso Erdogan, sparendo, almeno apparentemente, dalla campagna elettorale. Se in primavera aveva preso parte a tutti i comizi, questa volta si è ritirato in buon ordine, più rispettoso del suo ruolo di Capo dello Stato che teoricamente dovrebbe essere super partes. All’atto pratico, Erdogan ha preferito fare campagna elettorale nel modo che forse preferisce, ossia illudendo i turchi che la Mezzaluna all’estero sia ancora un Paese in grado di dettare legge.

In quest’ottica vanno lette la visita a Bruxelles per fare riprendere i negoziati di adesione e affrontare la questione migranti e la telefonata a Putin dopo la visita di Assad a Mosca. Atti a costo zero, opportunamente ripresi da una stampa sempre più a ricaduta interna e più filogovernativa e che hanno ricollocato Erdogan nel ruolo in cui il popolo turco preferisce vederlo: guida (ma non assoluta) della nazione, indipendentemente dalla carica ricoperta. Sarà interessante capire come questo atteggiamento convivrà con le ambizioni di presidenzialismo forte del Capo dello Stato.

Per il momento, è importante soffermarsi sul fatto che l’Akp non solo ha guadagnato quasi ovunque, ma lo ha fatto anche in collegi storicamente ostici, a partire dal sud-est a maggioranza curda, per arrivare alla regione del Mar di Marmara, tradizionale feudo dei laici, e persino a Smirne, città simbolo della Turchia moderna, dove è salito del 5% rispetto alle politiche di giugno. Un risultato che ha dello storico, la cui analisi non può certamente fermarsi all’insipienza dell’opposizione.

Il fattore più determinante nel risultato finale delle urne è stato sicuramente la paura, da intendersi in varie declinazioni. Questa constatazione potrà infastidire la parte più laica e progressista del Paese, ma in questi 13 anni una parte del popolo turco si è abituata piacevolmente alla stabilità politica ed economica che deriva dall’avere un uomo solo al comando, e il voto del primo novembre dimostra che non vi vuole rinunciare, nemmeno a scapito del rispetto della libertà di espressione e dei diritti fondamentali. Una scelta sulla quale pesa il rischio del terrorismo curdo, anche se forse i turchi amanti della “pax erdoganiana” dovrebbero porsi un paio di domande sul rapporto fra Erdogan e Isis.

Non è esagerato dire che una grossa spinta verso la vittoria, ad Erdogan, l’abbia data il Pkk per primo. Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione separatista e terrorista, da fine luglio fino al 10 ottobre, data della strage di Ankara, ha ingaggiato una vera e propria guerra contro l’esercito della Mezzaluna. Scontri a fuoco durati settimane e di cui spesso hanno fatto le spese proprio i civili. Non c’è molto da sorprendersi se una parte dell’elettorato curdo ha preferito votare Erdogan e, pur avendo inizialmente puntato sulla giovane promessa dell’Hdp, Selahattin Demirtas, non l’ha giudicato pienamente in grado di proteggere il territorio.

Se si considera anche lo spostamento di voti dai partiti islamici alla formazione di maggioranza, si può tranquillamente dire che, con la sua campagna elettorale a carattere apparentemente meno religioso e più nazionalista, Erdogan ha fatto un capolavoro ed è riuscito a calamitare i voti più diversi. Chi lo segue perché conservatore-religioso, chi perché vetero nazionalista, chi per mancanza di alternative, chi perché ha paura del terrorismo curdo, chi perché il Capo dello Stato è la garanzia migliore per la crescita economica del Paese.

Il risultato è quello di un leader investito, a furor di popolo, di superpoteri, che da adesso potrà fare quello che vuole, senza badare troppo né all’opposizione, né a quella parte di Turchia che lo vorrebbe ridimensionato e che, con la pressione in aumento sulla stampa, rischia di venire sempre più silenziata.