Fino a 650 euro per ettaro. E’ il prezzo che le aziende agricole italiane pagano alla scelta ormai ventennale di rinunciare al mais transgenico, che invece dobbiamo importare per produrre mangimi più sani per i nostri allevamenti pregiati. Intanto a Mantova, nel cuore delle DOP, gli agricoltori chiedono libertà di scelta.

masini - Copia

La campagna di Pegognaga, nella Bassa Mantovana, si conforma poco all’immagine  da acquerello che normalmente associamo all’agricoltura tradizionale italiana e che fa da sfondo pubblicitario alla nostra industria agroalimentare di qualità. In questa terra fertile, che si estende pianeggiante a perdita d’occhio, immersa spesso nella nebbia che non lascia trasparire gli intensi colori, ai filari squadrati di pioppi si alternano regolari campi di mais e prati di foraggere. E stalle, efficienti e tecnologiche, perché l’agricoltura della bassa mantovana produce essenzialmente per loro, vacche e maiali.

E’ infatti da queste pianure che provengono il 10% delle forme di Parmigiano Reggiano, il 30% del Granapadano, e rispettivamente il 30 e il 35% delle cosce di maiale che diventeranno prosciutti di Parma e San Daniele. A raccontarci queste cifre, con un pizzico di orgoglio, è Matteo Lasagna, presidente di Confagricoltura Mantova, la cui azienda agricola si estende per circa 70 ettari nelle campagne di Pegognaga, con 140 vacche che producono latte per il Parmigiano Reggiano. Lasagna esprime l’orgoglio di rappresentare, con la sua organizzazione, la metà dei 160.000 ettari di superficie agricola e il 60% delle giornate lavorate in un territorio che si fregia delle principali denominazioni d’origine, quelle che da sole costituiscono la parte più rilevante del valore totale delle DOP e delle IGP italiane.

 

Liberi di scegliere

Matteo Lasagna ha preso, nelle scorse settimane, un’iniziativa particolare e controversa: ha lanciato una petizione per chiedere che la regione Lombardia si adegui alle recenti sentenze della Corte di Giustizia europea e non ostacoli la semina di mais geneticamente modificato. Una petizione che in pochi giorni ha raccolto quasi un migliaio di adesioni tra gli agricoltori mantovani. “Agricoltori veri, a cui abbiamo chiesto la ragione sociale insieme alla firma, non abbiamo messo i banchetti al mercato”  tiene a precisare. “Dovrebbero smetterla di dire che gli agricoltori italiani sono contrari agli OGM”. Ma non c’è contraddizione tra voler seminare mais transgenico e continuare a produrre per una filiera di qualità?

E perché mai? Gli OGM li diamo da anni alle nostre vacche e ai nostri maiali. Solo che vengono dall’estero, come il 90% della soia e il 40% del mais da cui dipendono i mangimifici italiani. E lo sa perché non possiamo farne a meno? Perché è materiale più sano, nel quale è garantita l’assenza di fumonisine”. Le fumonisine sono delle sostanze tossiche prodotte dalle muffe che si annidano nei solchi scavati dalla piralide nelle pannocchie del mais e che non è possibile bonificare dopo la raccolta. Il mais Bt è resistente agli attacchi di piralide, e quindi presenta un livello di fumonisine ben al di sotto della soglia massima ammessa, a differenza di quello convenzionale e bio. 

“Quindi noi possiamo, anzi dobbiamo usare mangimi prodotti con mais geneticamente modificato, ma quello stesso mais non lo possiamo coltivare. Dobbiamo sopportare costi maggiori per produrre un mais meno sano e che ha sempre meno mercato. Che senso ha?” Si chiede Lasagna. Oggi la battaglia politica e ideologica sugli OGM si è spostata dal livello scientifico a quello socioeconomico: in assenza di evidenze che dimostrino la presenza di pericoli per la salute o per l’ambiente derivanti dalla coltivazione e dal consumo di varietà transgeniche, oggi in Europa si discute se lasciare o meno agli Stati membri dell’Unione la libertà di autorizzare o meno gli OGM sulla base di valutazioni di convenienza locale.

 

Territori e mercato comune

Sarebbe una scelta controversa, della quale si parla da tempo. Il problema è che una decisione simile metterebbe in un colpo solo a repentaglio due principi cardine del mercato comune: il primo, che i prodotti vengono ammessi sul mercato esclusivamente sulla base di considerazioni di carattere scientifico. Il secondo, quel che vale in un paese vale anche negli altri: niente aiuti di stati a questa o quella categoria di produttori, niente barriere protezionistiche interne che ostacolino la libera circolazione dei beni. Il timore è che se si lasciasse agli stati la facoltà di legiferare in proprio in materia di OGM, domani anche i produttori di scarpe, di transistor o di zucchine potrebbero chiedere, e legittimamente sperare di ottenere, misure che vietino la circolazione o la produzione di merci concorrenti. E infatti l’Italia sta già subendo una procedura di infrazione per le norme che di fatto impediscono la coltivazione di mais Bt sul territorio nazionale.

Per la politica, di ogni colore, gli OGM rappresentano un pericolo per le specificità dell’agricoltura italiana, che si caratterizza sulla qualità e che andrebbe difesa dall’omologazione. Ma è un’argomentazione che si scontra con la realtà, ben rappresentata dall’esperienza mantovana, di un’agricoltura italiana di qualità che agli OGM non può rinunciare, al punto che i mangimi prodotti con mais e soia transgenici di importazione sono liberamente in vendita anche nei consorzi agrari gestiti da Coldiretti, che dell’ostilità preconcetta al biotech ha fatto un proprio tratto distintivo. Al punto che le filiere delle principali DOP e IGP non possono prescindere da questa materia prima.

“Non siamo latifondisti – spiega Lasagna smentendo l’immagine artefatta che pretende che gli OGM si adattino solo a grandi estensioni monocolturali – la superficie media delle nostre aziende si aggira ancora attorno alle 70 biolche, circa 20 ettari nell’unità di misura con cui ancora oggi si calcolano le superfici agrarie dalle nostre parti. E non siamo rivoluzionari. Ma vogliamo che l’Italia si rimetta in linea con il progresso, vogliamo che si ricominci a fare ricerca, pubblica innanzitutto, e a migliorare le varietà che coltiviamo. Contrapporre innovazione e tradizione non ha senso – ripete - perché sono le innovazioni di successo quelle che diventano tradizioni”. 

Ma quanto costa agli agricoltori italiani la rinuncia agli OGM? E’ difficile fare delle stime precise, ma quel che è certo è che gli agricoltori italiani scontano un gap di produttività significativo, ed è comprensibile la frustrazione di chi si trova a dover comprare e utilizzare nelle stalle quello che non può produrre.

 

Il prezzo che paghiamo

Una recente ricerca, confrontando 20 aziende agricole in Italia, Spagna e Germania nell’arco di 5 anni, aveva stabilito che la perdita media per i produttori di mais italiani si attestasse attorno ai 132 euro per ettaro. Una cifra rilevante, calcolata sulle condizioni colturali e di mercato del 2010, ma che probabilmente è fin troppo ottimistica. Infatti la rinuncia agli OGM potrebbe avere avuto una conseguenza indiretta, molto rilevante ma comunque quantificabile, sulla produttività delle aziende agricole italiane. Il seguente grafico, elaborato da Strade su dati Istat e USDA, confronta l’andamento delle rese di frumento in Italia e negli USA dagli anni ’40 ad oggi.

grafico 1

Si nota come le rese siano in costante crescita in entrambe le realtà produttive. Ma guardate il prossimo grafico, dove ad essere messe a confronto sono le rese del mais.

grafico 2

E’ evidente che, mentre negli USA la produzione è cresciuta con regolarità, in Italia frena bruscamente e comincia a calare a partire dagli anni ’90. Che cosa è successo? Lo abbiamo chiesto al biotecnologo Piero Morandini: “la flessione non è dovuta di per sé al non uso di varietà transgeniche, ma al fatto che, non volendo usare varietà transgeniche, non possiamo più usare le migliori linee del breeding internazionale (quelle usate per costituire gli ibridi), perché oramai sono tutte con almeno un carattere transgenico: Bt o HT. Per questo siamo costretti ad usare linee vecchie di 20 anni fa e quindi siamo fermi ai livelli produttivi permessi da tali varietà”. Quando abbiamo ipotizzato che il trend di crescita fosse rimasto invariato, ne è venuto fuori un risultato impressionante. Le ipotesi che abbiamo formulato sono due: nella prima abbiamo proiettato sull’ultimo ventennio la curva di crescita delle rese di mais a partire dagli anni 40, mentre nella seconda utilizziamo solo la curva delle rese a partire dagli anni ’60.

grafico 3

grafico 4

Ebbene, quel che ne emerge è che nell’arco degli ultimi vent’anni, come unintended consequence del bando alle varietà transgeniche, abbiamo accumulato un ritardo quantificabile in una forbice che va da 1,5 a 2,6 tonnellate per ettaro, ovvero tra il 13% e il 25% della nostra resa produttiva media, che ai prezzi dell’ultima campagna agraria possiamo quantificare in una perdita stimata tra i 300 e i 520 euro per ettaro, da sommare alle perdite dirette, stimate come detto attorno ai 130 euro per ettaro. Circa 650 euro per ettaro, quindi. Qualsiasi agricoltore è in grado di proiettare queste cifre sul bilancio della propria azienda, e farsi un’idea.

Sono cifre che difficilmente potranno essere trascurate qualora il permesso di coltivare o meno mais OGM dipendesse anche da motivazioni socioeconomiche. E sono cifre che rischiano di essere un biglietto da visita poco edificante per un paese che tra un anno ospiterà, non lontano dalle campagne di Pegognaga, l'Expo2015 che paradossalmente si intitolerà "nutrire il pianeta".