Possiamo immaginare una applicazione che rappresenti pregi e difetti di una grande città, e individui i modelli migliori per il futuro? Ulysses Sengupta, che la sta realizzando, spiega come l’analisi dei sistemi complessi e la partecipazione diretta dei cittadini alla progettazione del futuro urbano costituiscano la base dello studio e della realizzazione delle future smart cities.

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Le città si comportano come il sistema immunitario degli esseri umani: cambiano, si adattano, progrediscono. E se le persone vogliono vivere meglio – in un futuro prossimo in cui, secondo i dati del professor Dickson Despommier dell'Università della Columbia, l'80% degli individui abiteranno in un centro urbano – hanno una sola possibilità: intervenire sulla metamorfosi urbana già da ora, per rendere le città più resilienti e adatte alle esigenze degli individui.

In sostanza, come scrive il corrispondente del Guardian Jay McGregor, per progettare città più smart dobbiamo tentare un immaginario viaggio nel tempo. Il modo per compierlo c'è, e lo spiega, raggiunto via Skype da Strade, Ulysses Sengupta, ricercatore e lettore presso la Manchester School of Architecture: «Con il gruppo di lavoro AESOP, Planning and Complexity, cerchiamo di applicare il metodo di analisi dei sistemi complessi – come la biosfera e l'ecosistema, o il cervello umano e il nostro sistema immunitario appunto – alle città per capire in che modo cambieranno. Possiamo farlo sia guardando alle politiche adottate da un governo sia, d'altro canto, tramite analisi qualitative e interviste ai cittadini. Se riusciamo a capire quali direzioni stia prendendo la città ora, grazie alle decisioni amministrative e ai desideri dei cittadini, possiamo simulare uno scenario futuro, e agire per influenzarlo». Insomma: per città più smart non serve solo più Internet, ma più partecipazione.

L'idea di Sengupta, in sostanza, prende piede dalla critica all'attuale idea di smart city: «Un concetto troppo standard – lo definisce – che si basa su grandi quantità di dati, sull'idea di misurazione di input e output e sulla sola ottimizzazione dei risultati». Come avviene, per esempio, con tutte quelle applicazioni pensate per misurare l'efficenza della metropolitana, dei mezzi pubblici, il livello di inquinamento e i Twitter trend di Londra, New York o Roma. Ma, chiede Sengupta, alla fine di tutti questi numeri, che te ne fai? Dai uno sguardo al presente, «puoi agire sull'esistente», continua, ma non riesci a prevedere il futuro della città. «La nostra proposta invece – continua – prova a prendere tutti questi dati, e li mescola a tanti altri raccolti per strada, attraverso interviste, foto, dialoghi con le persone, come stiamo facendo in Cina e in India. Poi li mescoliamo ai report sulla città, alle ricerche, e cerchiamo di progettare lo scenario futuro».

Come? Con un metodo di studio rubato alle scienze della complessità e che l'autore stesso definisce scalare, a tre livelli. Il primo riguarda la raccolta di dati della città, così come è rappresentata in una Google map: informazioni sulla grandezza, la topografia, la presenza di fiumi, laghi, parchi e zone industriali. Il secondo step, invece, riguarda lo studio dei pattern urbani, del modo in cui si sviluppano i quartieri, le linee, per esempio, del tram, le strade, le connessioni da un punto all'altro. Il terzo e ultimo livello di studio, il più interessante da un punto di vista sociologico, è l'analisi dello spazio: dei palazzi e di quello che avviene negli e tra gli edifici. La domanda da farsi è: chi c'è nelle strade e nelle piazze, cosa fa, cerca, desidera? Cosa pensano le persone delle scelte amministrative e come le cambierebbero? Così, mettendo insieme dati freddi, numerici, e di natura qualitativa, legati, cioè, al sentimento, alle paure e alle speranze delle persone, il team AESOP tenta di progettare la città che verrà. Si tratta, scrivono sul proprio blog, di un lavoro di estrapolazione e non di semplice proiezione: «Come in una science fiction – spiega Sengupta – dove le attuali tecnologie sono trasportate per deduzione in un futuro possibile». A differenza, invece, di quello che accade in un racconto fantasy, in cui lo scenario si basa su metafore e dati random.

Tecnicamente lo strumento per studiare le informazioni e progettare il futuro delle città non è una applicazione, come le numerose che già esistono e servono a monitorare numerosi aspetti della vita urbana, ma una piattaforma, la cui costruzione è in corso d'opera, tramite la quale chi accede non solo vede rappresentata la città futura, costruita in base alle conseguenze delle scelte politiche realizzate oggi, ma propone eventuali cambiamenti, idee, decisioni alternative.

«In UK, in Italia, quando il governo propone una idea è già possibile andare online, magari sul sito di un giornale, e dire: non mi piace, oppure, per me va bene – spiega Sengupta – il nostro strumento sarà molto di più. Un luogo dove monitorare, proporre idee dal basso, influenzandosi a vicenda, tra cittadini, e tra persone e pubblica amministrazione». L'approccio, in sostanza, è quello della gamification, l'applicazione dei meccanismi di gioco e delle tecniche di progettazione dei giochi in un contesto diverso. I cittadini, come attori della trama, partecipano alla progettazione del futuro urbano.

Tutto semplice, quindi? Non proprio. La simulazione degli scenari futuri, infatti, non è perfetta, ma fornisce una descrizione credibile della metamorfosi in atto. Un dato che deriva dai primi test del metodo effettuati in Cina e negli slum di Mumbai, dove Sengupta guida un gruppo di studenti dell'Università di Nottingham. Intanto un passaggio fondamentale per il raffinamento dell'approccio riguarda il progetto pilota che sta per iniziare a Manchester, e che coinvolge non solo l'amministrazione cittadina, ma la camera di commercio locale, l'Università, il dipartimento di urbanistica. «Un lavoro – racconta Sengupta – che ci impegnerà nei prossimi 5 anni». Un grande test, insomma, da fare insieme alle persone che vivono nella città inglese.

«Il nostro – conclude Sengupta – non è un nuovo strumento, ma un nuovo approccio». Che mira a sostituire la definizione di smart cities con quella di intelligent cities, così come proposta dal professore Michael Weinstock durante la conferenza AESOP dello scorso Gennaio: luoghi di intelligenza collettiva. Fondata sui dati, certo. Ma anche sulle passioni e le speranze delle persone.