Tramontata l’ipotesi di un 'salvataggio di mercato' per MPS, molto ancora rimane da fare, dalla sottoscrizione dell’aumento Unicredit al collocamento della nuova MPS post ricapitalizzazione di Stato; la notizia positiva è che la strada da percorrere è fondamentalmente tracciata e che, avendo smesso di ignorare i problemi, c’è qualche ragionevole possibilità che nel tempo si riesca anche a risolverli.

Famularo Montepaschi

Il 2016 si è chiuso con la parola fine sul tentato salvataggio “di mercato” del Monte dei Paschi di Siena e la predisposizione di uno “scudo salvabanche” da parte del governo, con una potenza di fuoco fino a 20 miliardi. Potrebbe sembrare un presagio negativo per gli anni a venire, un segnale che la strada da fare per arrivare a un sistema sano, capace di camminare con le proprie gambe, sia in qualche modo ancora irrimediabilmente lastricata di interventi di Stato per rimediare ai danni della cattiva gestione passata.

Cercando di assumere una prospettiva neutrale si può evidenziare quanto di positivo lo scorso anno è stato fatto e proseguirà nel 2017, e cosa ancora rimane da fare.

Partendo dalla metà vuota del bicchiere le criticità principali rimangono tre:

- lo stock elevato di crediti “non-performing”, tra i motivi, assieme all’incertezza sulle riforme istituzionali, alla base del recente downgrade da parte dell’agenzia di rating DBRS, unica che ancora assegnava all’Italia il valore più basso della classe A;

- la bassa profittabilità in parte attribuibile alla difficoltà di fronteggiare il perdurante contesto macro di bassi tassi d’interesse, ma in larga parte anche connessa alla necessità di ripensare le operations per adeguarle a un mondo dove l’automazione ICT, online e mobile banking riducono drasticamente la necessità di filiali fisiche e dipendenti;

- la necessità di ricapitalizzazione derivante dalla copertura delle attività di ristrutturazione necessarie per fronteggiare i primi due punti.

Osservando invece il bicchiere mezzo pieno si può dire che, con riferimento agli istituti maggiori:

- MPS, il malato più grave, è avviato lungo un percorso definito che, per quanto oneroso per i contribuenti, almeno non lascia spazi rilevanti all’incertezza sugli esiti;

- Unicredit, l’unica banca di rilevanza sistemica del paese, ha messo in campo un piano ambizioso di pulizia delle “eredità negative precedenti” e di consolidamento con aumento di capitale previsto pari a 13 miliardi;

- Intesa San Paolo allo stato non sembra avere bisogno di misure straordinarie e porta avanti una strategia di riduzione degli attivi non-core (cfr. recente asta per 2,5 miliardi di NPL);

- Banco Popolare e BPM hanno portato a termine con successo l’operazione di fusione sulla quale, al momento, i mercati sembrano esprimere un giudizio positivo.

Mentre, con riferimento a quelli di dimensioni immediatamente successive, possiamo dire che

- UBI e BPER dovrebbero mettere la parola fine al “pasticciaccio” delle (not so) Good Bank rilevandole al valore simbolico di un euro previa nuova pulizia dei crediti deteriorati;

- Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza hanno in pipeline la fusione nell’anno in corso, subordinatamente alla definizione transattiva delle controversie con i soci;

- Carige sta giocando una delicata partita per la dismissione dei crediti deteriorati con la collaborazione di Prelios e forse una struttura di cartolarizzazione che impiegherà la Gacs.

Per riassumere, quindi, la cattiva notizia è che molto ancora rimane da fare e da richiedere ai mercati, dalla sottoscrizione dell’aumento Unicredit al collocamento della nuova MPS post ricapitalizzazione di Stato; la notizia positiva è che la strada da percorrere è fondamentalmente tracciata e che, avendo smesso di ignorare i problemi, c’è qualche ragionevole possibilità che nel tempo si riesca anche a risolverli.

MPS: questioni chiuse e questioni ancora aperte
La seconda metà del 2016 è stata spesa alla ricerca della cosiddetta “soluzione di mercato” al problema MPS. A seguito dell’esito fortemente negativo dello stress test BCE registrato in luglio, la risposta interna prevedeva la dismissione in blocco di tutti i crediti in sofferenza e maggiori accantonamenti sui deteriorati non ceduti a fronte di un aumento di capitale di circa 5 miliardi.

Questo aumento, che pure poteva essere coperto per circa la metà dalla conversione di obbligazioni subordinate, è definitivamente fallito nell’ultima decade di dicembre per la mancanza di “anchor investor, un nucleo stabile di investitori di medio termine che avrebbe dovuto includere il fondo sovrano del Qatar e forse alcuni hedge fund come quello di George Soros.

Tramontata l’ipotesi di una ricapitalizzazione di mercato, si è aperta la strada all’intervento del governo, che aveva già predisposto un fondo per sostenere il sistema bancario e far fronte a eventuali problemi di liquidità, con una dotazione di 20 miliardi a valere sullo stock di debito pubblico del 2017. Posto che la ricapitalizzazione precauzionale con intervento dello Stato deve essere improntata a criteri di prudenza, la BCE ha quantificato in circa 8,8 miliardi l’importo potenziale dell’aumento di capitale con conversione obbligatoria di tutte le obbligazioni subordinate. Questa cifra include un impegno di circa 6,6 miliardi a carico dello stato e il residuo ottenuto da conversione di subordinati detenuti da investitori professionali. Al fine di evitare contenziosi il governo si è impegnato a riacquistare le azioni derivanti da conversione forzata delle obbligazioni detenute da investitori non professionali, per un valore di circa 2,2 miliardi inclusi nei 6,6 complessivi.

Il governo è al lavoro insieme ai vertici della banca per l’elaborazione di un nuovo piano industriale che potrebbe portare all’accettazione di un importo minore per la ricapitalizzazione. Il nodo principale del 2017 riguarda la sistemazione dei crediti in sofferenza (e probabilmente di parte degli altri crediti deteriorati) per i quali è allo studio anche l’ipotesi di una bad bank. Gli obiettivi principali risultano pertanto la “sistemazione” dello stock di crediti deteriorati e la ristrutturazione delle operations, con radicale riduzione dei costi e del numero dei lavoratori, probabilmente da completare nel 2017; l’uscita del Tesoro dal capitale dell’istituto, al termine del processo di risanamento, potrebbe pertanto avvenire nel 2018.

Unicredit, il gigante che cerca di tornare “buono”
Il piano triennale presentato da Unicredit ha un nome particolarmente esplicativo: Transform 2019. L’idea di fondo è quella di prendere atto di tutte le eredità negative pregresse, apportare i correttivi necessari e varare un aumento di capitale da 13 miliardi per far fronte ai costi dell’iniziativa. Si tratta di un riconoscimento importante e significativo che si tradurrà in 14mila esuberi di cui circa 6500 in Italia: per questi è previsto un costo di 1,7 miliardi a cui vanno aggiunti 1,4 miliardi di rettifiche su attivi patrimoniali e oltre 8 miliardi di maggiori accantonamenti sui crediti deteriorati che renderanno possibile la cessione di circa 17,7 miliardi di “non-performing loans”. Su quest’ultimo punto è stato raggiunto un accordo preliminare con PIMCO e Fortress che rispettivamente rileveranno la quota secured (pari a 3,5 miliardi) e quella unsecured delle sofferenze in dismissione.

Un piano ambizioso, nel quale i mercati hanno dimostrato di credere anche alla luce delle dismissioni di partecipazioni realizzate su Pioneer, Fineco e Bank Pekao. Riconoscere l’esistenza dei problemi e porre in essere i correttivi necessari è la strada giusta per riuscire a riguadagnare la solidità e l’efficienza necessarie per essere competitivi sul mercato.