La svolta liberista del nuovo presidente cinese è un salto in avanti senza precedenti. Ma letta nel dettaglio, l'agenda di Xi non soddisfa né i puristi del mercato e ancor meno i fautori di processi di democratizzazione. Più libertà economica e meno democrazia.

 

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A metà novembre si è svolta la diciottesima edizione della plenaria del Partito Comunista cinese. Un momento di definizione del programma di governo e di sviluppo della visione che la Cina avrà nei prossimi anni. Il risultato è un dettagliato documento di riforme politico-sociali, dall'allentamento dei vincoli nella politica del figlio unico all'eliminazione della rieducazione dei condannati tramite la detenzione nei campi di lavoro, fino ad un pacchetto di riforma della tassazione e della privatizzazione della grandi imprese statali. Il politburo che guida il Partito Comunista ed il presidente Xi Jinping si trovano a fronteggiare numerosi interrogativi, come ad esempio analizzare la struttura economica cinese e le sue implicazioni sociali per riformarle in senso "mercatista" e soprattutto come affrontare le resistenze che si annidano nelle grandi aziende statali, nei governi locali e nei gruppi d'interesse che puntano a conservare le proprie rendite di posizione. Le riforme non sono indolori per nessuno dal punto di vista del consenso, nemmeno per un colosso che cresce rapidamente.

Nell'ambizioso documento varato da Xi e dal suo stato maggiore si materializza una profonda ristrutturazione dei rapporti tra Stato e mercato. L'ispirazione, più che dal prudente predecessore Hu Jintao, viene dall'afflato riformatore del leader che più di ogni altro ha segnato la storia economica della Cina negli ultimi vent'anni: Deng Xiao Ping. Il manifesto trasuda tratti di capitalismo e liberalismo economico che risultano nuovi per un Paese retto da una dittatura ancora formalmente comunista. La chiave di volta risiede nella frase sul ruolo del mercato "decisivo nell'allocazione delle risorse in luogo dello Stato". Il documento continua sostenendo che lo Stato deve fare un passo indietro nell'allocazione delle risorse segnando con precisione i ruoli a cui questo deve essere relegato: management macroeconomico, regolazione del mercato, fornitura dei servizi pubblici, controllo della società cinese e protezione dell'ambiente. Certo, è una dichiarazione d'intenti e probabilmente velata da zelo, ma l'approccio è potenzialmente molto significativo. Negli ultimi vent'anni la Cina ha deregolato soprattutto nel settore della produzione industriale e la concorrenza in questi mercati ha generato un saldo economico enormemente favorevole. Restano ancora settori chiave "imprigionati" - quali i capitali, l'energia e i terreni – e lo Stato cinese non rinuncerà a guidare gli asset chiave della sua economia. Difficilmente il controllo delle società statali sarà cedute in mani private. La proposta sul tavolo è d'incoraggiare i capitali privati a partecipare a tali società fino ad un 30 per cento, creando una tensione concorrenziale ed un allentamento delle logiche clientelari che ancora dominano queste realtà, favorendone così la produttività. In tal senso va letto, ad esempio, l'intento di concentrare in grandi gruppi la miriade di aziende pubbliche fiorite più o meno disordinatamente negli anni.

Non stiamo ovviamente parlando della adesione sic et simpliciter al modello occidentale di libero mercato, come sottolinea Arthur R. Kroeber (senior fellow del Brookings Institute), né di una tendenza alla privatizzazione delle imprese pubbliche, quanto dell'affermazione dell'efficacia della concorrenza tra pubblico e privato. Tuttavia, anche solo da un punto di vista "semantico", il documento pone le imprese private e quelle pubbliche su un piano di parità e ciò costituisce un inciso rivoluzionario per un Paese fondato storicamente sulla prevalenza del potere politico sull'iniziativa privata. E' una "rivoluzione di vocabolario", che per la Cina è più significativa di quanto si creda.

Xi si troverà, con tutta probabilità, a fronteggiare problemi non troppo dissimili a quelli dei suoi colleghi d'Occidente nello spingere queste riforme economiche. L'opera di riduzione dei poteri degli enti locali troverà opposizione da parte di tutte quelle forze e gruppi d'interesse che traggono vantaggio dall'attuale assetto di potere: dirigenti pubblici, burocrati locali, oligarchi di partito e loro capitalisti protetti. La tattica di Xi e del primo ministro Li, con una decisione assunta nel plenum del partito di metà novembre sembra quella di smembrare in due le competenze degli alti livelli del PCC: un gruppo dirigente che si occuperà delle riforme economiche ed un Comitato per la Sicurezza Nazionale per controllare ed implementare le politiche governative per la sicurezza e la stabilità. La divisione può apparire bizantina e puramente burocratica, ma Xi sembra aver imparato una lezione dai suoi predecessori, in particolare da Hu Jintao. Il corpo politico d'alto profilo è stato caratterizzato negli anni scorsi da una litigiosità interna tra coloro che spingevano nell'apertura ai mercati e coloro che vi si opponevano temendo che un'accelerazione del capitalismo potesse determinare eccessivi squilibri politici e avviare processi di resistenza al partito. Così facendo Xi separa i due campi e previene i litigi tra i ministri. Da un lato si procederà con le riforme dell'agenda ma dall'altro, con la creazione di una apposita commissione, si rinforzerà il controllo della politica sulla società cinese. Questo processo è accompagnato da una massiccia campagna anti-corruzione che Xi sta cavalcando dal primo giorno del suo mandato e che si sta ritorcendo proprio contro la burocrazia più incline a resistere al riformismo economico. Anche qui il messaggio è chiaro e machiavellico: chi politicamente si trova dal lato sbagliato non sarà salvato dalle sue posizioni di potere, ma finirà nelle maglie dell'anti-corruzione e delle sue pene severe. Maglie molto strette, peraltro, considerato l'elevato tasso di corruzione nella Pubblica Amministrazione cinese.

L'agenda di Xi Jinping non soddisfa né i puristi del mercato e ancor meno i fautori di processi di democratizzazione. Anzi, è possibile che si vada verso una Cina economicamente più aperta ad investimenti e afflusso di capitali privati, ma politicamente più chiusa. Più libertà economica e meno democrazia, "più mercato e più polizia".