La crisi del Qatar sta mettendo sotto pressione un delicato equilibrio regionale, ma potrebbe aprire la strada a una nuova alleanza in grado di inaugurare per il mondo arabo e musulmano, oltre che per la stessa regione del Golfo Arabo, una stagione di progresso civile e di cooperazione.

Belfer

Quando i libri di storia saranno stati scritti, il Ramadan del 2017 sarà ricordato come l’inizio della fine del Gulf Cooperation Council (GCC). Il 5 giugno tre membri – Bahrein, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – hanno deciso di ritirare i loro ambasciatori, imporre il blocco dello spazio aereo, dei porti marittimi e un embargo commerciale nei confronti del Qatar. Gli esperti e i politici hanno ridotto la crisi in corso a un battibecco intra-regionale, ma dopo sei mesi senza ulteriori sviluppi, è tempo di tornare a esaminare la situazione.

In contrasto con la valanga di disinformazione che ha investito il web, e che ha portato il grande pubblico a credere che la crisi del Qatar sia stata in qualche modo innescata dalla visita di Donald Trump in Arabia Saudita, è tempo di ammettere con onestà che le sue radici, invece, erano più antiche. La crisi del 2017 è collegata direttamente al biennio 2013-2014. Anche in quell’occasione il Qatar subì un isolamento, dovuto all’emergere di notizie sulla doppiezza (nella migliore delle ipotesi) di Doha e/o sul suo coinvolgimento attivo (nella peggiore) in alcune tra le vicende di violenza più nere nella regione del Golfo: assistenza finanziaria agli Huthi nello Yemen, legami con al-Wefaq (un gruppo politico-terroristico Sciita-Khomeinista sostenuto dall’Iran attraverso il suo “agente ideologico”, l’Ayatollah Isa Qassim) in Bahrein, sommosse nelle province orientali dell’Arabia Saudita, il tutto mentre il network al-Jazeera veniva accusato di sobillazione in tutta l’area del Golfo e in tutto il mondo arabo. Doha stava lavorando contro la stabilità del GCC.

Il Qatar si è impegnato a cambiare atteggiamento. L’Emiro del Paese, Shaickh Hamad al-Tani ha abdicato in favore di suo figlio Tamim al-Thani. Il GCC ha voltato pagina, ma non poteva durare. Le promesse di Doha non si sono tradotte in cambiamenti sostanziali e il risentimento degli altri membri del blocco ha cominciato a incrinare i legami del GCC. Il tutto fino al 2017, quando il flirt di Doha con la Fratellanza Musulmana, le sue relazioni con il Fronte al-Nusra (ovvero Al-Qaeda in Siria), la sua cooperazione strategica con Iran e Turchia hanno reso la regione del Golfo Arabo più vulnerabile, meno efficace nello stabilire un equilibrio di potere e, come risultato ultimo, più instabile.

Quest'anno il Kuwait si è mosso per ritagliarsi un ruolo di nicchia come mediatore e, dopo l'inizio delle trattative, ha consegnato una lista di richieste che Doha avrebbe dovuto soddisfare per porre fine al suo isolamento:

- Fine dei legami con le organizzazioni islamiste, in particolare la Fratellanza Musulmana, lo Stato Islamico, al-Quaeda Fateh al-Sham e gli Hezbollah libanesi

- Drastica riduzione della cooperazione con l’Iran.

- Chiusura di Al-Jazeera e altri media sostenuti dal Qatar.

- Espellere le truppe turche dal territorio del Paese.

Si tratta di richieste molto esplicite, così come esplicito è stato il rifiuto da parte del Qatar. Le dinamiche della crisi riflettono le profonde differenze tra il Qatar e il resto dei paesi del GCC, dal momento che il contenzioso più rilevante riguarda la visione di Doha sulla proliferazione dell’Islam politico. Visione che ha portato a meccanismi di finanziamento e assistenza politica a una pletora di gruppi che perseguono l’Islam come ideologia. Il supporto esplicito di Doha alla Fratellanza Musulmana è apertamente ostile all’agenda che perseguono il Bahrein, l’Egitto, la Giordania, il Kuwait, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, i quali sostengono tutti apertamente le fazioni anti-islamiste.

Come era prevedibile, il Qatar ha definito le richieste un oltraggio e un affronto alla sua sovranità, e ha cominciato a impiegare strumenti strategici per proteggersi dalle ripercussioni politiche ed economiche della crisi. Ha attinto abbondantemente dal suo fondo sovrano e, come è stato riportato, ha speso qualcosa come 30 miliardi di dollari (dall’inizio della crisi) in progetti ed eventi di pubbliche relazioni volti a ottenere sostegno in Europa, negli Stati Uniti e nel resto del mondo.

Meno prevedibile è stato l’atteggiamento del Qatar nei confronti di Turchia e Iran, che da partner commerciali hanno assunto il ruolo di “custodi” del paese. L’Iran ha fornito scorte di cibo e altri beni di prima necessità, autorizzando navi e aerei ad attraversare le sue acque territoriali e il suo spazio aereo. In cambio, il Qatar ha cominciato a condividere con l’Iran i suoi asset politici e si è impegnato per portare parlamentari europei, uomini d’affari e altri notabili in viaggi di lavoro Doha-Teheran. Il Qatar sta aiutando l’Iran, e l’Iran sta diventando rapidamente un hub economico in grado di mantenere a galla il Qatar. L’Emiro del Qatar sta camminando su un filo, dal momento che la maggior parte dei qatarioti è restia all’ipotesi di alienarsi ulteriormente le simpatie dei paesi confratelli del Golfo Arabo, e certamente non vuole contribuire all’aumento delle tensioni Arabo-Iraniane. Gli emiri al-Thani potrebbero alla fine essere ostacolati da un fronte interno nei loro legami con la Repubblica Islamica.

Ci sono tuttavia meno ostacoli allo sviluppo di relazioni tra Qatar e Turchia, e il sostegno di Ankara è stato incondizionato. Questo sostegno è dovuto sia al fatto che l’AKP Party di Recep Tayyp Erdogan è affiliato alla Fratellanza Musulmana (appoggiata dal Qatar), sia alle strategie geopolitiche turche, dal momento che Ankara sta cercando di inserirsi nella regione strategica del Golfo. Erdogan potrebbe sostenere la tesi secondo la quale la crisi è parte di una più ampia cospirazione ai danni dell’Islam politico, ma nella realtà è chiaro che a beneficiare della situazione è proprio la Turchia stessa. Ankara potrebbe non essere affatto interessata a una soluzione della crisi del Qatar, o a un ritorno allo status quo. Il Parlamento turco ha approvato il dispiegamento di centinaia di soldati a Doha, soldati che non sembrano avere fretta di tornare a casa.

La crisi sta mettendo sotto pressione un delicato equilibrio regionale. Ad esempio i colossi asiatici di Cina e India, dipendenti dal petrolio saudita e dal gas del Qatar, hanno assunto una posizione neutrale. Semplicemente, non vogliono vedere fluttuazioni economiche. Anche la Russia si è astenuta dall’alienarsi le simpatie delle parti in causa, dal momento che la sua politica attiva in Medio Oriente sta mostrando qualche segno di successo, ed è quindi poco incline a mettere a repentaglio la sua posizione schierandosi in questa crisi.

In Europa, mentre l’Unione Europea ha ufficialmente sostenuto gli sforzi di mediazione del Kuwait, molti Stati membri stanno seguendo i propri interessi tradizionali in politica estera. La Francia è più allineata con il Qatar, La Germania sta seguendo una pragmatica politica del passo-dopo-passo, mentre il Regno Unito post-Brexit è intrappolato nella polarizzazione della politica nazionale e la sua politica estera risente dell’indecisione dei suoi massimi livelli politici. Gli Stati Uniti sono divisi su questo dossier a livello istituzionale, con la Casa Bianca, il Pentagono e il Dipartimento di Stato in competizione sulla linea d’azione più appropriata da seguire.

Nonostante l’atteggiamento opaco della comunità internazionale, è chiaro che in pochi vogliono vedere una transizione dalla crisi al conflitto. Ci sono, semplicemente, troppe cose in ballo. E sono ancora meno a voler vedere un drastico rimescolamento nelle alleanze della regione, specialmente dal momento che il GCC ha funzionato come baluardo contro la Repubblica Islamica per quasi 40 anni. Su questo fronte, tuttavia, potrebbe non esserci molto da fare: il GCC potrebbe non riprendersi più da questa crisi.

Ma se il GCC dovesse cadere a causa delle intemperanze di un singolo membro, allora un rimescolamento delle alleanze potrebbe essere davvero necessario. Potrebbe essere il momento di inaugurare un Arab Cooperation Council (ACC) per compensare le fratture lasciate nel GCC da questa crisi. Bahrein, Kuwait, Oman, Arabia Saudita ed Emirati potrebbero unirsi a Egitto e Giordania come “soci fondatori” di un’alleanza la cui porta dovrebbe essere lasciata aperta per altri – Qatar, Iraq, Yemen – nel momento in cui i loro sistemi politici rifletteranno i valori di progresso costitutivi dell’alleanza stessa: un’alleanza di pace e prosperità, un’alleanza di tolleranza e diversità religiosa, un’alleanza contro il terrorismo e il radicalismo, un’alleanza strategica profonda per scoraggiare gli avversari comuni e sostenere i comuni interessi, un’alleanza Araba per il futuro.

Il 2017 potrebbe essere ricordato come “l’anno che non c’era” nel Golfo Arabo. Con determinazione, impegno e un po’ di fortuna il 2018 può, al contrario, diventare un anno in cui il Golfo Arabo aprirà la strada della costruzione della civiltà nel mondo arabo e musulmano. Ci sono le leadership, c’è il capitale umano e le risorse materiali perché ciò avvenga. Con l’aiuto della comunità internazionale, l’anno che abbiamo di fronte può lasciare dietro le spalle le sfide dell’anno appena trascorso, e gli Stati del Golfo Arabo sono ottimisti per un futuro all’insegna della cooperazione.