La riforma del bicameralismo e del riparto delle competenze legislative tra Stato e regioni ristabilisce la sostenibilità e l’efficienza costituzionale del sistema di governo, in una fase storica in cui l’Italia non è più esposta a ricadute autoritarie, ma a una permanente conflittualità istituzionale e instabilità politica. Se per i costituenti il pericolo era la 'dittatura' degli esecutivi, oggi il problema è la loro impotenza.

Ambroselli vapore

Era il 1936 quando per la prima volta un sondaggio, allora effettuato dall’American Institute of Public Opinion, previde con largo anticipo la vittoria alle presidenziali di Franklin D. Roosevelt nei confronti del suo avversario Alfred M. Landon. Circa dieci anni dopo, quando gli italiani furono chiamati per la prima volta a eleggere il parlamento repubblicano, i sondaggi erano ancora qualcosa di sconosciuto (in Italia si affermeranno solo negli anni ‘90) e la sensazione diffusa era quella di un vero e proprio salto nel vuoto.

L’Italia era reduce dal ventennio fascista, lacerata dal conflitto mondiale, i partiti non erano ancora del tutto strutturati sui territori, l’odore della guerra fredda alle porte era percepibile e minaccioso. Le forze politiche che sedevano nell’Assemblea Costituente temevano che il vincitore delle successive elezioni avrebbe potuto comprimere i diritti dei perdenti, facendo sprofondare la nazione in una nuova dittatura. Si fece largo così l’idea di congegnare un sistema che, sulla scorta di tali preoccupazioni, piuttosto che garantire la governabilità, assicurasse l'esatto opposto.

Si optò per due camere dotate delle medesime funzioni, con una durata diversa (5 anni la Camera dei Deputati, 6 anni il Senato della Repubblica), aventi elettorato attivo e passivo difforme e depositarie entrambe del potere di dare vita all’esecutivo, ovvero di decretarne la morte, tramite il voto di fiducia. La ricetta perfetta per l'ingovernabilità.

Non si può certo accusare i costituenti di aver disatteso le aspettative. Dei 63 governi che si sono succeduti nella storia repubblicana, il Governo attuale è quinto per longevità, nonostante si sia insediato solo il 22 febbraio 2014. Se l’intento perseguito dai costituenti del ’48 si spiegava alla luce del contesto dell’epoca, con un’Italia politica di fatto divisa dalla frontiera di Yalta, il Paese che oggi si appresta a decidere sulla revisione della sua carta fondamentale è decisamente diverso e ha problemi all'epoca non prevedibili.

Le antiche paure di una “ricaduta” autoritaria hanno lasciato il posto alle preoccupazioni per un sistema di governo instabile e non decidente. La lentezza del procedimento legislativo, imbrigliato in un modello che predilige la negoziazione consociativa alle chiare scelte di indirizzo, ha comportato risvolti negativi sia da un punto di vista interno che esterno. Se si guarda ad esempio ai rapporti in ambito europeo si può osservare come la debolezza di un’istanza non necessariamente derivi dalla debolezza del soggetto che la propone o degli argomenti che la giustificano, ma dalla sua scarsa tempestività. Le procedure decisionali di uno Stato che voglia rendersi davvero protagonista devono essere necessariamente rapide e in presa diretta con la realtà, pur garantendo la dialettica propria di un sistema parlamentare.

In questo senso le scelte della riforma su cui saremo chiamati a esprimerci non rappresentano un’invenzione o una forzatura dell’attuale esecutivo, ma una risposta a problemi di cui molti costituenti e una parte della dottrina erano già consapevoli dal giorno successivo all’entrata in vigore della Costituzione. Fin da subito parve evidente come un sistema elettorale difforme, abbinato a una durata della legislatura sfalsata tra i due rami del parlamento, avrebbe comportato l’impossibilità della nascita di qualsiasi esecutivo stabile. L’On. Ruini, che fu relatore all’Assemblea costituente, a soli dieci anni dal suo discorso in aula, non mancò di rilevare, riferendosi al Senato, come quella scelta avesse comportato la creazione di un “doppione dell’altra Camera”. Sulla scia di queste considerazioni l’intervento riformatore consegna la prevalenza a una Camera politica rispetto all’altra, così come avviene negli altri stati europei che adottano un sistema bicamerale.

Nel modello proposto il Senato, quale camera rappresentativa dei territori, è composto per la quasi totalità da consiglieri regionali e sindaci. Il suo ruolo non può dirsi certo svilito, conservando voce in capitolo su ogni materia, tramite la possibilità di proporre emendamenti su qualunque disegno di legge. La decisione finale spetta però alla Camera dei Deputati, cui è affidato, in via esclusiva, il potere fiduciario. In altre materie, per le quali continua a essere previsto un procedimento di approvazione bicamerale paritario (come ad esempio le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali o la ratifica dei trattati relativi all'appartenenza dell'Italia all'Unione europea e le leggi che stabiliscono i termini della partecipazione dell'Italia alla determinazione e all'attuazione delle politiche comunitarie), il sistema continua invece a prevedere la navetta. Si contempera in questo modo l'esigenza di coinvolgere diversi livelli territoriali nelle scelte nazionali e quella di garantire un procedimento legislativo più veloce nella generalità dei casi in cui la legge è espressione diretta dell’attività di governo.

È sempre in quest’ottica che la riforma cerca di superare l’utilizzo distorto dei decreti legge. Problema apparentemente diverso, ma che deriva dalla medesima esigenza: normare in tempi certi. Da molti anni i Governi sono soliti fare un grande ricorso alla decretazione d’urgenza, originariamente pensata dai costituenti come strumento da attivarsi solo in caso di necessità e di urgenza, ma divenuta poi mezzo per assicurare all’esecutivo uno strumento utile, forse oggi indispensabile, ai fini del perseguimento del suo programma politico. Per ovviare a tale continuo aggiramento della ratio originaria, la riforma introduce la possibilità per il Governo di ottenere, senza alcuna compressione dei lavori parlamentari, un esito normativo in un tempo certo (70 giorni).

Il ruolo di primo piano attribuito ai consiglieri Regionali e ai sindaci, tramite il citato potere di richiamo, va letto in combinato disposto con la ridefinizione delle competenze tra Stato e Regioni. La riforma chiarisce, in modo netto, quali saranno le competenze nazionali e quali quelle regionali: nessuna "via di mezzo". Questo evidentemente ridurrà, superata una fisiologica fase iniziale, il lavoro della Corte Costituzionale nella veste di arbitro delle competenze e del perenne contenzioso tra Stato e Regioni sul preciso confine dei rispettivi poteri.

Da parte di alcuni, si è sollevata l'obiezione secondo la quale il sistema della legislazione concorrente avesse ormai raggiunto la sua "quadra". Nulla di più errato. Se si guarda alle sentenze della Corte costituzionale sui conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni ci si accorge come, dopo una leggera flessione nel 2010, si sia registrato un nuovo picco di conflitti nel 2012. Segnale del fatto che il problema è tutt'altro che risolto.

Tramite una scelta che ancora oggi stupisce, il legislatore costituzionale del 2001 inserì materie come i "porti e aeroporti civili, le grandi reti di trasporto e di navigazione” o come il “trasporto e distribuzione nazionale dell'energia" tra quelle soggette a legislazione concorrente. Riuscire a immaginare una regolamentazione "a metà" in tali settori, di evidente caratura nazionale, non può che attribuirsi a un refuso o ai postumi di una insolazione (le temperature tra il 2001 ed il 2003 toccarono livelli molto alti: una giustificazione ci dovrà pur essere!). Insomma, più che rovesciare “l’ordine costituito”, come sostengono alcuni illustri costituzionalisti, la riforma si propone di fare proprio l’opposto: riportare il sistema a un’effettiva sostenibilità ed efficienza costituzionale.

Per avvalorare questa tesi torno nuovamente, in conclusione, sulla disciplina della decretazione d'urgenza. A sistema vigente può accadere che il Presidente della Repubblica, in prossimità della scadenza, pensi di dovere rinviare la legge di conversione di un decreto legge alle Camere. In tal caso, consapevole delle conseguenze, può decidere di menomarsi di un’attribuzione costituzionale sua propria, ovvero propendere per il rinvio, decretando, conseguentemente, la decadenza dell’atto per scadenza dei termini di conversione. Per ovviare a questo corto circuito sistemico la riforma prevede che, qualora il Presidente rinvii il decreto legge alle camere, la validità si “allunghi” di ulteriori trenta giorni, garantendo al Parlamento il tempo necessario per recepire le indicazioni del Capo dello Stato.

È questo solo uno degli esempi che dimostrano come la riforma corregga problematiche confermate dall’esperienza e presenti da tempo nella discussione politica e dottrinale sui limiti degli attuali strumenti costituzionali. Nulla di eccessivo, di esagerato o di “eversivo”.