Meloni Orban grande

La fine del governo Draghi e i motivi per cui poteva andare a finire così erano nell'aria da tempo: c'è chi li fa risalire alle elezioni amministrative della primavera, chi alla rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica, chi a questo o quel provvedimento. Ma la verità è che l'avevo previsto non solo prima che Draghi venisse chiamato dal Quirinale per guidare il Paese, ma prima ancora che il Next Generation UE venisse formalmente approvato.

Non ne sono particolarmente felice: sarebbe stato meglio, molto meglio sbagliarsi, per l'Italia e per l'Europa. Era stato molto più gratificante anticipare il tracollo di Salvini, subito prima del trionfo alle Europee del 2019, o al limite intuire certe dinamiche malate del mercato del lavoro mentre stava per scoppiare la pandemia.

Se mi azzardo a scrivere di nuovo di quello che vedo nel futuro dopo le elezioni non è perché credo di saperlo: al contrario, spero di sbagliarmi. Leggo però sui social che qualcuno condivide pensieri in parte coincidenti con i miei, a cui serve dare una forma più articolata: anticipare gli eventi a volte vuol dire anche fare quel che si può per evitare che si manifestino, e quindi speriamo che sia così anche per questa riflessione.

Le previsioni elettorali dicono che la coalizione di centrodestra potrebbe vincere in tutti gli scenari di possibili alleanze contrapposte: sarebbe solo una questione di dimensioni, fino al punto di rischiare una maggioranza dei due terzi in grado di cambiare la Costituzione, senza la necessità di passare dal referendum confermativo.

Prendiamo per buona l'ipotesi che la coalizione vinca senza stravincere, con la Meloni a capo del governo come leader del partito più votato (e immagino con il ritorno di Salvini al Viminale, almeno fino alla fine della sua leadership nella Lega).

La cosa è preoccupante per vari motivi, ma sono opposti a quelli che vanno per la maggiore. Il pericolo non è che la giovane Giorgia segua i suoi antichi mentori post (?) fascisti e i suoi proclami, in particolare in tema di politica estera, di economia e di rapporti con l'Unione Europea: è esattamente il contrario che dovrebbe farci venire i sudori freddi, ed è lo scenario più probabile se Fratelli d'Italia vuole diventare egemone a destra e nel Paese. Vediamo perché, mettendo in fila una serie di fatti già successi, analizzandoli nello scenario internazionale attuale e valutando la convenienza dei vari attori nelle scelte da fare.

Va dato atto che, appena è scoppiata la guerra russa contro l'Ucraina, Giorgia Meloni ha schierato il proprio partito contro Putin e con gli USA, nonostante stesse all'opposizione: e ha ribadito questa posizione proprio pochi giorni fa, se dovesse arrivare a Palazzo Chigi. Chiarezza ammirevole, ma bisogna notare che sarebbe stata strana la posizione contraria: nessun partito in Italia ha mai avuto speranze di governare a lungo contro gli USA, e se Giorgia è brava la metà di quanto crede dovrà pur aver imparato qualcosa dai travagli di Salvini e Di Maio nei rapporti con Washington rispetto alle scelte (in tempo di pace) a favore di Russia e Cina.

In altre parole, dichiararsi alleato fedele degli USA rispetto alle scelte di politica estera vuol dire garantirsi una copertura assai forte e ancora più forte nello scenario di guerra in cui viviamo (e d'altronde sono state tante le volte in cui da Ministro della Difesa La Russa ha visitato le truppe italiane all'estero, schierate spesso insieme alle forze armate dello Zio Sam). Se Biden ha dovuto venire a patti anche con Mohammed Bin Salman, se ha accettato di rivedere il contrasto con Erdogan pur di non averlo contro, è chiaro che una Meloni (sedicente) atlantista farebbe comodo a Roma e a Washington, togliendo di mezzo una possibile pregiudiziale anche al Quirinale per assegnare l'incarico di governo. E se poi dovesse tornare Trump alla Casa Bianca nel 2024, beh, non dimentichiamoci che su quel fronte la Meloni avrebbe coperture ancora maggiori, e la possibilità di essere perfino una pedina avanzata per riconsegnare l'Europa ai sovranisti in sonno di Steve Bannon.

Sulla politica economica, e in particolare sul PNRR nel suo complesso, nessun politico commetterebbe la follia di dichiararlo morto e sepolto: e infatti la Meloni ha già di fatto garantito che non bloccherà i provvedimenti in arrivo in aula (d'altronde, chi avrebbe il coraggio di andare al governo avendo appena distrutto una messe di miliardi mai vista prima, e su cui può mettere le mani?). Con il governo moribondo le basterà ottenere qua e là alcuni ritocchi come quello già messo nel carniere per i taxi, e intestarsene il merito (magari insieme ad altri partiti del centrodestra): poi quando sarà il momento di fare la legge di bilancio si vedrà come procedere.

Ma chi spera che siano l'UE e la BCE a mettere alla frusta le tentazioni protezionistiche e dannose per l'ambiente della nuova compagine dovrebbe considerare una serie di elementi dal punto di vista di Bruxelles: uno scontro frontale tra Italia e istituzioni europee è l'ultima cosa che ci si può augurare nelle sedi europee, con la situazione di gravissima e potenzialmente mortale crisi economica, inflattiva e climatica.

Sarebbe molto più semplice, pur di garantirsi una qualche collaborazione e non far naufragare completamente il Next Generation EU (che per quasi il 30% è destinato all'Italia, in grado di trascinare l'intera costruzione europea in una crisi peggiore di quella del 2011), cercare di trovare compromessi che salvino la faccia a entrambi. Potrebbero essere gli altri Stati membri a eccepire su un trattamento del genere, in particolare quelli dell'area cosiddetta "dei frugali"? Difficile: per quanto alle prese con la propria opinione pubblica, nemmeno loro ormai possono augurarsi un'Italia "lanciata a bomba contro l'ingiustizia" dell'austerità perché le conseguenze sistemiche di un fallimento del piano di ripresa sarebbero troppo onerose per tutti.

Se perfino la Polonia è stata in qualche modo blandita, se le sue riforme sullo stato di diritto sono state accomodate in un modo o nell'altro, perché il suo supporto è necessario contro Putin, allora sarà molto difficile che Commissione e Consiglio si scaglino contro la destra al governo dell'Italia. E anche la Meloni, sempre che non voglia suicidarsi, saprà ben trovare il modo di accontentare l'elettorato con qualche provvedimento simbolico e rimandare a un indefinito futuro le riforme che annuncia ma che non può fare (magari dando la colpa al governo Draghi, come ha già cominciato a fare, e all'Europa con cui litigherà sopra al tavolo e collaborando sottobanco).

Ma allora come farà la destra a diventare egemone, se sulla politica estera e l'economia probabilmente sarà costretta a seguire le orme tracciate nell'ultimo anno e mezzo? Qui vengono i motivi di profondissima preoccupazione, che sembriamo già esserci dimenticati dopo l'esperienza del governo gialloverde: con una probabilissima stretta securitaria, e con provvedimenti contro i diritti civili, contro la libertà di stampa e contro i migranti. Altro che cittadinanza agli italiani di seconda generazione, altro che coltivazione della cannabis, altro che legge contro l'omofobia.

La destra meloniana e quella salviniana additeranno agli anziani e arrabbiati italiani un nemico inesistente, ma sempre evocato, giocando come sempre sulla paura del futuro e sul rimpianto per "i bei tempi": e chi spera che anche qui sarà l'UE a salvarci dovrebbe riconsiderare quello che è successo negli ultimi 3 anni, dopo l'uscita di Salvini dal Viminale (non che fosse troppo presente anche prima, è solo una figura retorica). Gli sbarchi, nonostante le lamentele leghiste sulla gestione del Ministero degli Interni, hanno continuato a essere svolti secondo i decreti voluti dal leader della Lega; a est, la situazione dei migranti dall'Afghanistan o dalla Siria al confine tra Bielorussia e Polonia stride con l'accoglienza riservata agli ucraini; in Ungheria le leggi contro la libertà di stampa e sui diritti civili sono ancora in piedi, così come lo è quella sull'aborto in Polonia. Sono tutti temi su cui la sensibilità italiana è molto indietro rispetto al resto dell'Occidente europeo, e su cui negli anni abbiamo visto che l'elettorato tende a scontare a chi governa male gli errori compiuti su altri temi, purché dimostri la necessaria ferocia.

Al netto del fatto che tutti questi scenari sono condizionati da innumerevoli variabili, contare sul vincolo esterno sarà di nuovo un grave errore tattico, ma con esiti potenzialmente peggiori di quelli del passato. Proviamo a chiudere con una nota positiva, cercando di intuire da dove potrebbero venire i problemi: dall'interno della coalizione, per questione di potere diviso in modo imperfetto e scontentando qualcuno? Difficile, dove hanno governato le regioni hanno dimostrato bene o male di riuscire a gestire queste situazioni (con l'eccezione parziale della Sicilia, al momento).

Da possibili guai giudiziari? Altrettanto difficile, con una magistratura assai screditata e in crisi di identità (e attenzione a quello che potrebbe succedere lasciando campo libero a Palamara). Da crisi economiche e congiunture negative? Ancora più difficile, perché per mesi e mesi (come minimo) si dirà "lasciateli lavorare, è colpa di quelli che c'erano prima", e perché il moral hazard a questo punto del PNRR è già servito sul tavolo. No, non ci sono note positive se gli scenari dovessero avverarsi. L'unica possibilità è ricostruire un'idea alternativa a questa, diffonderla nel Paese e farla diventare maggioritaria.

Non c'è tempo da perdere, perché se poi addirittura dovesse diventare realtà la maggioranza dei due terzi non è nemmeno detto che si riesca a farlo. Viktor Orban è ancora lì, testimone interessato che il proprio modello può essere esportato e avere successo ben oltre i confini dell'Ungheria: mantenendo una democrazia di facciata, senza che nessuno riesca più a far molto per ripristinare condizioni minime di competizione con lui. E per farlo non c'è bisogno di manganelli e olio di ricino, né di orbace e baionette; al contrario, basterà un poco di zucchero: e vedrete che la pillola potrebbe andar giù per un altro ventennio.