lego popolo 611

Il sondaggio che ha destato scandalo tra alcuni osservatori della società italiana, e che ha spinto il direttore di Strade, Carmelo Palma, a scrivere il suo articolo sulla “egemonia culturale degli stronzi”, merita forse qualche riflessione in più.

Intanto un’osservazione di metodo. Anche se non sono uno statistico, mi sembra che sia una follia logica porre una domanda come quella a un “campione casuale nazionale rappresentativo della popolazione italiana maggiorenne secondo genere, età, livello di scolarità, area geografica di residenza, dimensione del comune di residenza”: un ventenne universitario a Roma e un sessantenne dipendente comunale a Enna, o un cinquantenne operaio a Melfi e un trentenne in carriera a Milano, o un quarantenne libero professionista e un coetaneo magazziniere non possono avere la stessa idea di "restare al lavoro" né la stessa visione su "figli e nipoti". Una domanda così generica a un campione che è in media assai lontano dalla pensione (e che spesso non ha nemmeno idea di che tipo di pensione avrà, né se avrà figli o nipoti) è una domanda priva di qualsiasi indicazione, se non per sondare un generico sentimento “di pancia”; non dice nulla invece sull’effettiva disponibilità di chi è vicino alla pensione di restare al lavoro qualche anno in più, né sull’importanza percepita dell’equità intergenerazionale.

Ma a voler ben guardare, quello che ci dice questo sondaggio riguarda soprattutto il rapporto degli italiani con il proprio lavoro. Che è vissuto come un problema, solo parzialmente compensato dallo stipendio. Per la maggior parte dei lavoratori italiani (in particolare di quelli dipendenti, o parasubordinati) il lavoro non costituisce una fonte di arricchimento personale, professionale o economico; non rappresenta una opportunità di crescita; non offre stimoli, non permette la conciliazione con il resto della propria vita (sociale, familiare, culturale); è fonte di preoccupazione continua ("la mia azienda andrà avanti in questa situazione? Potrei trovarmi senza lavoro a un'età troppo avanzata per cambiare e troppo giovane per andare in pensione? Riuscirò a rimanere aggiornato come chi arriva oggi in azienda? Potrò pagare una persona per prendersi cura dei miei genitori anziani mentre io a sessantacinque anni sarò ancora al lavoro 8 ore al giorno?"). Il tutto per stipendi abbastanza miseri in confronto al resto dell'Occidente; con dirigenti generalmente figli o parenti del titolare o del fondatore; spesso senza possibilità di formazione e di carriera, in aziende in cui la media di dipendenti è inferiore ai dieci colleghi.

Usciamo da casa e guardiamo le persone che incontriamo: immaginiamo le loro condizioni di lavoro e chiediamoci: "quanto resterei volentieri al posto loro?".

Il salumiere, che alla soglia dei sessant’anni lavora da quando i coetanei andavano al ginnasio, maneggiando in un ipermercato coltelli e affettatrici, spostando casse di prosciutti, inchinandosi per arrivare a pulire la mostra fino negli angoli in cui si deposita lo sporco e la polvere, come fa il suo collega di 25 anni appena assunto.

L’autista del tram, che a quarant’anni e con due figli piccoli nella sua casa in periferia fa gli scongiuri tutte le volte che esce nel turno di notte, sperando di non incontrare i balordi che in altre città hanno picchiato i suoi colleghi per uno sguardo, per un rifiuto a favore della sicurezza dei passeggeri, per un ritardo di cui non avevano colpa.

Il dipendente dell’autofficina, che quando aveva cominciato a lavorare vent’anni fa puliva carburatori e valvole, ma oggi non li guarda quasi più, e deve capire l’elettronica di bordo come se fosse ai box di un Gran Premio di Formula 1.

L’addetto alle pompe di benzina in una stazione di servizio, che ogni volta che comincia il proprio lavoro controlla se le telecamere sono in funzione, sapendo comunque che non fermeranno i malviventi armati che decidessero di rapinarlo.

L’impiegato di banca, che deve vendere ai propri clienti polizze e prodotti finanziari di cui non si fiderebbe se si trovasse in prima persona dall’altra parte della scrivania.

Il telefonista di un call center, che nella migliore delle sue giornate chiama persone sconosciute per sentirsi rispondere “no grazie” e nelle peggiori colleziona insulti e scortesie come se da quella telefonata traesse chissà quale vantaggio economico.

Il camionista che percorre centinaia di chilometri ogni notte, per garantire la consegna veloce del nostro acquisto su Internet, e viene pagato sempre meno per andare sempre più in fretta.

Il dipendente pubblico, che a volte passa le giornate ad ammazzarsi di lavoro per mandare avanti le cose nonostante tutti gli ostacoli, ma viene pagato in misura identica a chi aspetta la fine dell’orario di lavoro facendo le parole crociate per ammazzare il tempo.

Mi chiedo: ma a un italiano qualsiasi chi glielo fa fare di restare, se può andare via da posti di lavoro del genere?