sassi bilancia 611 

Sgombriamo subito il terreno da potenziali equivoci, che sembrano sorgere ogni volta che si parla di questi argomenti, e facciamo una chiara scelta di campo: il presidente di Confindustria Bonomi ha avuto ragione nel presentarsi combattivo al suo insediamento, e il Governo Conte ha esaurito tutti i bonus dopo che la pazienza dimostrata dagli italiani non sembra aver prodotto alcun risultato apprezzabile, sotto qualsiasi profilo; è lampante infine che avere persone capaci, serie e preparate nei cosiddetti “posti di comando” sarebbe un prerequisito per affrontare i mesi e gli anni che ci aspettano con qualche speranza.

Queste premesse però non devono portarci a credere che una caduta del Governo sarebbe sicuramente un bene per il Paese: non per il feticcio della stabilità per la stabilità, né perché eventuali elezioni potrebbero consegnarci scenari perfino peggiori. Più prosaicamente, perché non c’è alcuna possibilità concreta che il Paese cambi davvero, cambiando solo il governo o cominciando dal cambio di governo.

Le crisi di governo degli ultimi 25 anni, ma anche i momenti di alternanza tra centrodestra e centrosinistra, non hanno infatti riportato l'Italia a camminare al passo di altri Stati. Perché oggi come allora non è a Palazzo Chigi il nostro problema principale: la famosa “stanza dei bottoni” lì dentro non è mai esistita, come scoprì già Nenni negli anni ’60. Se le leve del potere non erano in grado di trasmettere la volontà dell’esecutivo con la dovuta efficacia, in un Paese ancora in salute e tutto sommato in uno scenario semplice da interpretare (sia sul fronte interno che su quello internazionale), figuriamoci quanto può essere gestibile oggi una situazione esplosiva e complessa come quella in cui viviamo da trent’anni senza aver trovato una via d’uscita.

Di fronte alle molte occasioni perse, pensare che tutto dipenda dall’ultimo Presidente del Consiglio sarebbe un atto di autoconsolazione ingeneroso e anche illusorio: come credere che semplicemente cambiando lui e chi gli siede intorno si possa sbloccare la maledizione di immobilità e declino che grava sul su di noi, come se non ci fosse alcun rapporto tra elettori ed eletti. Purtroppo non è così: molti dei mali che la nostra politica esprime sono mali connaturati alla nostra società, al nostro tempo, e non spariranno con un nuovo giuramento al Quirinale.

Per tornare a Bonomi, ad esempio: il suo è un programma di richieste ambizioso, che trova molto convinta una parte del Paese e assai più restia un’altra parte, che potrebbe perdere rendite di posizione molto comode acquisite nel tempo. Quanto siano numerose nelle urne le due parti determinerà la possibilità concreta che almeno un pezzo di quel piano veda la luce. Attenzione però, perché bisogna tener conto di due diversi tipi di voti: sono utili quelli espressi dai sondaggi, che testimoniano il consenso potenziale nell’opinione pubblica, ma sono indispensabili quelli già espressi nelle elezioni precedenti, che determinano chi siede in Parlamento. Senza quei voti, a meno di non pensare a nuove elezioni, con tutto il carico di incertezze e allungamento dei tempi che comportano, non c’è possibilità di costruire nulla al di là degli annunci. E tutto questo prendendo in considerazione solo le idee di Bonomi: che non sono le uniche a circolare nel Paese, e non rappresentano gli interessi di tutti. Perché, a prescindere da dove arrivino i soldi e quanti ne arrivino, non ci sono idee condivise su come investirli al meglio: dire “aiutiamo le imprese”, “sosteniamo gli autonomi”, “non perdiamo posti di lavoro” è un piano generico e inutile quanto volere la pace nel mondo. Si tratta di decidere i criteri con cui fare scelte che sono difficili e costose, in termini di consenso.

Perché questo è l’altro corno del dilemma, vecchio quanto la democrazia a suffragio universale: come conciliare la fretta di ciascun cittadino nel ricevere risposte alla sua situazione specifica con la necessità di fare le scelte migliori nell’interesse generale? Come gestire la differenza temporale tra la percezione immediata di un bisogno e l’orizzonte spesso pluriennale di una riforma, ammesso che giunga a compimento? Come scegliere, senza avere risorse abbondanti, quale settore privilegiare, quali aziende e quali beni considerare strategici, e quali accompagnare al proprio inevitabile declino gestendone gli effetti meno piacevoli? Come farlo in un clima sociale di contrapposizione pensato a somma zero, in cui (solo per fare qualche esempio) se vincono le banche qualcuno dirà che hanno perso i risparmiatori, se vincono le fonderie dell’acciaio che hanno perso i cittadini che vivono nei dintorni, se vince il turismo al Sud che hanno perso le grandi città d’arte del Nord? Come evitare insomma che opposizioni irresponsabili, a volte al seguito di Paesi ostili, cavalchino piccole sacche di malcontento (No VAX, no TAP, no TAV, etc), ricavandone una visibilità politica e mediatica ben più grande del dovuto? E come evitare che si rifiutino perciò di cooperare a scelte di lungo periodo pur di lucrare qualche punto percentuale in più nei sondaggi della settimana? Come mettere in chiaro, senza perdere troppo consenso, che non andrà tutto bene, che forse qualcuno non ce la farà, nemmeno con tutta la buona volontà e l’impegno possibili, ma che è comunque necessario scegliere dove puntare oggi le nostre speranze per avere più possibilità per tutti domani?

Sono questioni politiche di primissima grandezza, davanti alle quale stanno faticando anche democrazie più solide della nostra e con una migliore coesione sociale. Lo dimostra la Francia con i suoi gilets jaunes, la Germania con le proteste (guidate dall’estero) contro il lockdown, la Gran Bretagna alle prese con la lunga coda del voto ideologico sulla Brexit (di cui Boris Johnson è stato padre in quanto parlamentare e figlio in quanto primo ministro), gli USA in cui la polarizzazione ormai non risparmia più alcun campo della vita pubblica, nemmeno l’uso della mascherina.
Abbozzo un tentativo di risposta, perlomeno togliendo di mezzo due cavalli di battaglia degli oppositori del governo.

Contare troppo sul vincolo esterno dell’appartenenza all’Europa e alla NATO è stato un errore strategico: a un certo punto quel vincolo, impedendo errori che la maggioranza degli elettori avrebbe voluto compiere, è stato percepito come una violenza anti-democratica (con qualche ragione, credo: ma per fortuna c’era e dunque ci siamo risparmiati il peggio). È diventato quindi facile passare dal “ce lo chiede l’Europa”, usato per far digerire bocconi elettoralmente amari, al “ce lo impone/vieta l’Europa” per guadagnare consenso con polemiche strumentali. Non si può oggi tornare a dire che ci deve costringere l’Europa a fare le riforme, senza sapere quali mostri questo trucco da illusionisti abbia generato negli ultimi vent’anni.
È altrettanto sbagliato sperare ancora una volta nel miracolo di un ottimo tecnico in grado di “fare le riforme” senza la necessaria copertura politica nel Paese, pure se trovasse i voti nel Parlamento: o meglio, può essere giusto nel brevissimo periodo, ma a patto che si accetti il rischio che chi lo seguirà nell’esperienza di governo possa poi disfare gran parte delle scelte che erediterà (che è in piccolo quanto è successo con Quota 100 dopo la riforma Fornero). Mario Draghi non risolverà da solo o con un Dream Team i mali nazionali: dispiace anche a me che sia così, ma non possiamo raccontare il contrario senza prenderci in giro.

Mi pare quindi che l’unica vera scelta strategica sia quella di dedicarsi con attenzione e pazienza a far crescere una consapevolezza nella massa di elettori delusi dalla situazione attuale, affinché si sentano liberi di immaginare un futuro diverso, come parte di una comunità: quei cittadini esistono e per molti versi sono maggioranza, ma sono oggi divisi da interessi immediati che possono discordare nell’uso delle risorse disponibili. Bisogna che imprenditori e professionisti, dirigenti e impiegati (pubblici o privati), operai e artigiani, studenti e pensionati comprendano che i propri desideri e le proprie aspirazioni, la propria intelligenza e la propria voglia di distinguersi non porteranno a nulla se essi non sapranno anche metterle da parte, per guardare al lungo termine e al successo di una certa idea di società.

Nel frattempo sarebbe bene anche che emergessero personalità meno egocentriche, che siano in grado di mettersi alla guida di questo progetto con responsabilità, capacità di ascolto e autorevolezza: perché non si può mica pensare che chi oggi utilizza la polemica del giorno per trovare visibilità presso gli elettori sia chi ci trarrà fuori da questa situazione. Può darsi che questa via sia una traversata nel deserto dalla quale non usciremo vivi: ma le scorciatoie in politica prima o poi si pagano, sempre.