Salvini Lega grande

Il gioco di Salvini di presentarsi davanti alle categorie produttive come “l’adulto nella stanza” del Governo giallo-verde sembra funzionare. La convocazione al Viminale dei rappresentanti delle associazioni d’impresa e la loro disciplinata sfilata nell’ufficio del Ministro dell’Interno, assistito per l’occasione dal sottosegretario Giorgetti, dimostrano che Salvini è l’uomo forte dell’esecutivo, ma non dimostrano affatto che la sua politica sia la più coerente con le esigenze di crescita e le più immune dal virus demagogica che ha infettato il dibattito politico-istituzionale.

Salvini non è più “realista” di Di Maio. È la sua demagogia “maggioritaria” a essere più popolare di quella dell’altro vice-premier, imprigionato dalle cambiali contratte in questi anni con tutte le minoranze incazzate e caricate sul carrozzone a 5 stelle, da quelle No Vax a quelle No Tav. Salvini mira ai grandi numeri, cioè alle grandi paure delle grandi masse popolari imbizzarrite dai feticci delle grandi minacce globali – l’immigrazione, la globalizzazione, la finanza, l’Europa – e su questi numeri ha costruito non solo il sorpasso elettorale del M5S, ma – quel che è peggio – l’aura del personaggio “concreto”.

Su tutti i capitoli delle politiche economiche l’alternativa leghista alla decrescita grillina è una sorta di sviluppismo magico fondato sul deficit e sulla prestidigitazione finanziaria: meno tasse, più spese e chi vivrà vedrà. È comprensibile che i sindacati dei “padroni” tengano un filo di dialogo con l’assoluto padrone della politica italiana, comodamente al centro di tutte le maggioranze possibili, da quella giallo-verde, a una possibile riedizione del centro-destra a trazione leghista. Se però questo dialogo tornasse a diventare – come nelle parole di Boccia era già diventato – vero credito politico, gli imprenditori italiani farebbero, come minimo, un grave errore di calcolo.

È comprensibile che molti settori produttivi possano oggi essere ingolositi dai “regali” di Salvini: una controriforma pensionistica che liberi gli stabilimenti dal personale più anziano e costoso, un po’ di misure direttamente o indirettamente protezioniste a sostegno dei settori più esposti alla concorrenza internazionale, un po’ di (finora fallite, ma domani chissà) misure di pulizia di vecchie pendenze fiscali.

Ma se dentro il mondo imprenditoriale italiano e tra le sue rappresentanze ufficiali si affermasse l’idea che per salvare l’Italia si possa anche mandare gambe all’aria lo Stato italiano e disintegrare l’economia italiana da quella internazionale, a uscire confermata sarebbe l’analisi per la quale il successo di Salvini non è la causa, ma l’effetto dell’impazzimento della classe dirigente italiana o della sua resa.

@carmelopalma