Tunisi dimostra che Salvini ha torto
Istituzioni ed economia
I primi caduti italiani sono entrati nella contabilità delle vittime del terrore islamista. L'Isis - se di Isis si tratta - aveva annunciato di essere a sud di Roma, ma li ha assassinati a Tunisi, che è sull'altra sponda del Mediterraneo. Ma Tunisi è comunque a nord di Lampedusa, cioè di quel pezzo di Italia che dalle coste libiche il califfato bombarda di ordigni umani ammassati su barconi pericolanti, in fuga dalla fame e dalla guerra, ma prigionieri di una guerra globale ancora più grande, che ne fa apparire giustificato perfino il sacrificio e la frettolosa tumulazione in mare. "Non li possiamo salvare, perché ci dobbiamo salvare", questa è la morale della favola che Salvini racconta e che da cinica finisce per apparire addirittura edificante.
Eppure, proprio l'attentato di ieri dimostra che la strategia "immigrati e terroristi a casa vostra" non serve a minimizzare i danni dell'espansionismo militare islamista, ma a massimizzare i profitti del riflusso nazionalista e di quell'ideologia-rifugio in cui l'Italia rischia di ficcare la testa, come gli struzzi sotto la sabbia. A questo equivale l'illusione che per "salvarsi" sia possibile tirare su il ponte levatoio del Mediterraneo, come se le precarie e contorte frontiere geografiche di un mare piccolo e affollatissimo potessero davvero diventare una barriera invalicabile, come non è mai accaduto in millenni di storia.
La pretesa che quel che succede al di là del Mediterraneo non abbia effetto su quel che succede al di qua (peraltro, al di là ci sono il nostro petrolio e il nostro gas, le nostre imprese, i nostri lavoratori e pure i nostri turisti) è vanificata dalla irridente facilità con cui gli islamisti si muovono a cavallo di quel confine inventato, su cui qualcuno vorrebbero piazzare le cannoniere a sparare sui barconi, per evitare la grana di dovere affrontare politicamente e militarmente le milizie del califfato, che ieri prima di sparare nel mucchio dei turisti in visita al museo del Bardo, avevano cercato di colpire il parlamento dell'unico stato in cui la primavera araba abbia dato un esito diverso dal caos, dall'islamizzazione forzata o dal ripristino dello status quo autocratico.
Il rapporto tra difesa dell'interesse nazionale e presenza e impegno sul fronte internazionale è un banco di prova ineludibile della maturità delle leadership politiche di un'Europa che l'offensiva islamista ferisce nel suo punto più debole, la capacità di difesa e di intervento militare, declassata da decenni di comoda eteronomia strategica. Anche l'Italia deve trovare una misura diversa da quella del business as usual e di una politica estera amica di tutti e nemica di nessuno, con la sola alternativa del bellicismo isterico e parolaio di chi pensa che la "guerra di civiltà" si combatta sparando sui barconi o affogandone l'ingestibile contenuto umano e bestemmiando l'Islam mondiale dal divano di casa.