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Gli scontri nel Governo, diviso tra la linea “dura” di Minniti e quella “morbida” di Del Rio sui rapporti con le ONG e sull’effettiva cogenza del codice di condotta dettato dal Viminale per l’attività di search and rescue, rappresentano – per paradossale che sembri – l’unico elemento di normalità di una discussione che su questo tema, fuori dalle stanze dell’esecutivo e di quel che rimane della maggioranza parlamentare, ha ormai perso ogni contatto con la realtà e la razionalità, e risvegliato i demoni maligni di un’opinione pubblica profeticamente rispecchiata nelle pagine della Storia della colonna infame.

Non so se il Ministro dell’Interno pensi che la linea dura serva anche ad arginare l’emorragia di consensi verso forze politiche che accusano le ONG di essere gli untori della peste migratoria. Se così fosse sbaglierebbe di grosso, perché non è possibile rubare un solo voto alla Lega o al M5S senza contrastare la persuasione che l’emergenza migratoria sia un veneficio ordito da forze oscure e non un fenomeno legato a cause e responsabilità chiare e razionalmente spiegabili. Se si accetta, per opportunità o per calcolo, che la “verità” sia quella di Di Maio o di Salvini, si accetta implicitamente che a trionfare politicamente siano quanti ne sono i legittimi titolari.

Nondimeno, il Ministro dell’Interno e l’esecutivo hanno dalla loro parte – e non è poco, di questi tempi – almeno l’impegno a fronteggiare il fenomeno nella sua complessità e nella sua effettiva origine, che sta in Libia e a sud della Libia, non sul limitare delle acque internazionali al largo di Misurata, Zuara o Sirte. Ma la Lega e i 5 Stelle rifiutano questo impegno e riscoprono una vocazione pacifista proprio perché la loro “verità” ha senso solo se la responsabilità del male è domestica, una materia da Procura della Repubblica o da tribunale del popolo, non da divisioni, cannoniere e boots on the ground.

Che i rigurgiti razzisti, sempre più politicamente sdoganati, siano legati all’insofferenza della popolazione per un’emergenza malgestita è una delle tante false “verità” di cui occorrerebbe liberarsi, per non concedere a tavolino la vittoria agli agitatori dell’odio sociale. Il fenomeno degli sbarchi è emergenziale solo per quanti attraversano il Mediterraneo sulle bagnarole telecomandate dagli scafisti e per quanti devono prestare loro soccorso, non per la generalità degli italiani che non sono assediati né minacciati da orde di “invasori” ospitati – come continuano a dire i razzisti – in hotel a 5 stelle e mantenuti dalla congrua paghetta rubata ai “nostri” poveri.

La stessa difficoltà burocratica di gestire un fenomeno ampiamente gestibile (non siamo in Libano che ha più di un milione di profughi su pochi milioni di abitanti) è un effetto, non una causa di questa ostilità ad avere estranei che vogliono mangiare al tavolo della stessa economia e dello stesso welfare. Si chiama xenofobia, non paura, che è termine ambiguamente indistinto e meramente psicologico. È un riflesso ideologico, non un sentimento morale, un condizionamento originario, non un riflesso reattivo. Non sono gli stranieri (troppi e troppo poveri) a causare la xenofobia, come non sono gli ebrei (troppo pochi e troppo ricchi) a causare l’antisemitismo.

L’anti-immigrazionismo sta alla xenofobia come l’antisionismo sta all’antisemitismo. È una maschera politicamente compatibile di un pregiudizio, peraltro, sempre meno inconfessabile. A moltissimi italiani – poco importa se siano la maggioranza o meno, sono abbastanza da dare il tono che fa la musica della nostra politica – risulta semplicemente insopportabile che tanti stranieri siano tra di noi, che tanto straniero e sradicato dal comodo rifugio di un’identità neppure nazionale, ma ferocemente particolaristica, sia diventato il nostro modo di vivere e di produrre, di consumare e di ridistribuire, di ricevere e di donare.

La xenofobia evolve coi tempi, senza rinnegare la propria origine e la propria matrice puramente negativa, che adatta alle caratteristiche delle nuove vittime sacrificali dell’invidia e del rancore. Salvini intima al Presidente della Repubblica di vergognarsi per avere osato paragonare gli immigrati stranieri ai 30 milioni di emigrati italiani che in oltre centocinquant’anni di storia hanno invaso tutto il mondo, dall’Australia al Sudamerica. Salvini però faceva il giovane comunista padano, in una Lega che prometteva di buttare fuori i terroni dal Nord e irrideva con cori da stadio i meridionali (“Senti che puzza scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani o colerosi, terremotati, con il sapone non vi siete mai lavati”) e ora fa l’adulto lepenista italiano promettendo, anche a nome di napoletani e siciliani, di ributtare arabi e neri al di là del Mediterraneo. Eppure Salvini è sempre uguale a se stesso, la maschera mutevole del razzismo come identità collettiva e non come pregiudizio individuale.

Non si tratta, peraltro, di un fenomeno solo etnico-culturale, ma anche economico-sociale. La xenofobia è il precursore ideologico del protezionismo e dello statalismo nazionalista. È la difesa parossistica del “nostro” lavoro, delle “nostre” aziende, dei “nostri” pomodori, in un mondo in cui il confine tra il “nostro” e “l’altrui” – a tutti i livelli - si è brutalmente denazionalizzato e in cui non solo la catena del valore, ma anche quella delle identità si è radicalmente globalizzata. Xenofobica è oggi la resistenza all’integrazione economica internazionale. Xenofobici sono il sovranismo monetario e la diffidenza per l’Europa matrigna. Xenofobici sono i fantasmi interiori e le paranoie di chi, per tornare a Manzoni, è sempre più pronto a “intonare il grido della carneficina” contro il nemico immaginario che viene da lontano e porta la “peste” ad irrompere nel recinto della tribù.

@carmelopalma