Londra attentato

Pochi commentatori (Alessandro Orsini sul Messaggero e Francesco Cancellato su Linkiesta) hanno oggi interpretato l'attentato di Londra per quello che, al di là delle apparenze e dell'orrore che suscita, questo sembra evidentemente dimostrare: la sostanziale sconfitta del progetto di reclutare le masse islamiche europee in una guerra civile 'molecolare'.

La penetrazione del terrorismo fai-da-te, la sua forza organizzativa e militare, la sua residua (e pur sempre temibile) potenzialità omicida confermano che il Califfo non è solo in grande difficoltà a Mosul e nei territori del sedicente Califfato, ma anche in Europa. A seminare morte e terrore a Londra è stato un uomo che voleva assaltare Westminster da solo, armato di coltello.

Si conferma, ancora una volta, la tesi per cui, nel vecchio continente, ad essere stati reclutati tra i volontari della jihad sono individui "disintegrati" e alienati, radicalizzati in genere dopo una lunga milizia criminale o esperienze di devianza, privi di qualunque cultura o sensibilità propriamente religiosa. Le masse islamiche non sono state contagiate, non hanno risposto all'appello, si sono tenute a una ragguardevole distanza di sicurezza e non hanno offerto protezione e complicità, se non in piccole reti di solidarietà familiare e amicale, ai cani sciolti del jihadismo europeo.

Ovviamente l'Europa non può considerarsi al sicuro, né può ritenere che il fenomeno terrorista sia destinato a dissolversi nel giro di poco tempo, ma non ha alcun senso considerare questa la vera "minaccia islamista" che incombe sulle sorti del vecchio continente, e che tuttavia esiste, ma ha una natura più politica che criminale. La vera minaccia non arriva da Mosul, ma da Ankara, non dalle schegge impazzite manovrate o innescate da Al Baghdadi, ma dai milioni di islamici europei sobillati al separatismo civile da Erdogan e dal potenziale esplosivo di un "identitarismo islamista", che riproduca nel cuore dell'Europa l'evidente radicalizzazione ideologica della politica islamica, oggi prevalente in larga parte del mondo musulmano.

Il pericolo non è che migliaia o decine di migliaia di islamici europei divengano terroristi, ma che milioni di essi cessino di sentirsi e di essere europei, per costruire una società e un ordine politico (di valori, di regole, di pratiche, di osservanze) separato e impermeabile alla cultura politica e sociale dell'Europa dei diritti e delle libertà fondamentali. L'Europa ha strategie di sicurezza sempre più efficienti per reagire alla sfida terrorista, ma non ha alcuna strategia politica per fronteggiare la sfida politica, che, anche considerando i trend demografici, rischia di disarticolare dal punto di vista culturale e civile la società europea.

Gli islamici europei sono gli islamici più liberi del mondo, ma rischiano di sentirsi prigionieri o snaturati dall'identità politicamente laica della società europea, se il "richiamo della foresta" che giunge loro arriva da Paesi, come appunto la Turchia, che non stanno perdendo, come il cosiddetto Califfato, la propria guerra di conquista, ma stanno esibendo, con indubbio successo, una potenza politica, militare e strategica apertamente intimidatoria, all'interno come all'esterno dei propri confini.

Il rischio, anche in questo caso, come già è avvenuto sul fenomeno terrorista, è che tra gli europei si pensi che il modo migliore per affrontare questo pericolo sia la scorciatoia della "de-islamizzazione" del vecchio continente, cioè la risposta alla sfida contro la cultura della tolleranza con i mezzi della discriminazione religiosa. Una strategia non solo sbagliata e contraddittoria, ma suicida, che regalerebbe agli islamici europei la conferma della loro "ontologica" estraneità all'Europa dei diritti.

@carmelopalma