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Salvini, reduce dal tumultuoso tour in Israele, è l’ennesimo campione di una politica che non esita a civettare con l’antisemitismo domestico – e che bordeggia e a volte scavalca i confini del fiancheggiamento di veri e propri gruppi fascisti – e nel contempo parteggia in modo pregiudiziale e ideologico per il governo israeliano pro tempore. Insomma, si possono vellicare i suprematisti bianchi, i gruppi antiebraici o i camerati di Casa Pound, se ci si schiera a favore del trasferimento dell’ambasciata nazionale a Gerusalemme o si dichiara amicizia perenne al governo Netanyahu.

Una volta essere nemici giurati di Israele era un grave indizio di antiebraismo. Oggi sembra quasi vero il contrario e non è un passo avanti, neppure sul piano della chiarezza. Gli "antisionisti" militanti erano, per lo più, antisemiti camuffati nella divisa del politicamente corretto anti-imperialista.

Oggi i "più amici" di Isreale, o per meglio dire gli amici giurati dei nazionalisti israeliani, sono in tutto il mondo - da Orban, a Bolsonaro, a Salvini - anche i fiancheggiatori di un populismo dichiaratamente razzisteggiante e vengono accolti con grandi segni di riconoscimento dalle autorità di governo dello stato ebraico. Perfino Duterte, dopo essersi paragonato (positivamente) a Hitler e avere accostato la "soluzione finale" nazista alla sua guerra ai narcotrafficanti, è stato ricevuto e portato con tutti gli onori al memoriale della Shoah.

Questi cortocircuiti della storia pongono, evidentemente, delle questioni interne a Israele, che ha un primo ministro programmaticamente e dichiaratamente "agnostico" su questioni di valore e che accetta e stringe alleanze in funzione difensiva con chi appoggia le istanze di sicurezza israeliane. Da questo punto di vista, Israele rimane l'unica, vera e (al di là delle dimensioni geografiche) grande democrazia del mediooriente, ma ha cessato di rappresentare un presidio "ideologico" democratico.

Si può discutere se questa sia la conseguenza di una prioritaria esigenza "esistenziale" di sicurezza, che continua a fare di Israele un unicum nel panorama internazionale, o al contrario un frutto avvelenato della deriva nazionalista della democrazia israeliana, in questo invece accomunata a molte grandi democrazie occidentali. In ogni caso, oggi, le autorità israeliane non si vergognano di questi amici e di queste amicizie. La questione più interessante dal punto di vista culturale, che riporta alla prevalenza nazionalista nel pensiero politico contemporaneo, è invece comprendere per quale motivo non solo "renda" molto, ma non "costi" niente ai suoi protagonisti questo mix di antiebraismo strisciante e di sostegno sperticato al governo Netanyahu.

La risposta più inquietante rischia di essere quella più vera: poiché è tornato a essere totalmente sdoganato - basta pensare alla mostrificazione nazistica del personaggio Soros - l'antisemitismo politico-culturale con l'accusa agli ebrei (ovviamente "ricchi", ovviamente "nell'ombra", ovviamente impegnati in criminali "complotti" antipopolari) di essere degli oscuri manovratori delle sorti del mondo globale, gli unici ebrei accettabili e davvero amici sono quelli che si rinchiudono nel loro Stato e accettano, fino alle estreme conseguenze, il paradigma nazionalista.

Israele - questa è la morale - può essere uno stato-ghetto accettabile, anzi amico, se gli ebrei smettono di imperversare nelle cose del mondo. Padroni a casa loro, anche gli ebrei, ma solo a casa loro. Una morale da brividi, no?