In Italia è tutto da resettare, più che da cambiare. Democrazia, partiti, istituzioni, mercati, regole civili. Sappiamo cosa non va e come dovrebbe andare, ma ci smarriamo davanti al fatto che l'ensemble invece va da un'altra parte. In Matteo Renzi e il suo team l'entusiasmo non ha forse permesso di cogliere appieno quanto marmo ci sia da eliminare prima che il capolavoro riemerga. Questa leggiadra inconsapevolezza può non essere un male.

Renzi sistema sito

I fatti. Renzi non ha una vera e propria strategia economica, o quanto meno ne ha una di massima che muove oltretutto da un postulato della cui verità non si ha alcuna contro-prova. Se facciamo subito le riforme istituzionali e la riforma del lavoro – è il ragionamento - l'Europa non potrà non accordarci l'ok allo sforamento del 3% - naturalmente a fin di bene, magari soprattutto riducendo la pressione fiscale. Noi facciamo nuova legge elettorale, riforma del Titolo V, superamento del bicameralismo perfetto e Jobs Act e in cambio l'Europa (che notoriamente si fida di noi) ci permette di investire a deficit. Magari è così, ma dall'esterno il progetto dà un po' il senso del velleitario.

Vabbé, facciamo le riforme quindi. Sappiamo che puoi svuotare le Province quanto ti pare, ma se i dipendenti restano tutti là continuano a costare, e la loro non-necessità funzionale sarà un costo ulteriore che le stime sui risparmi del provvedimento Delrio relativamente al "taglio di poltrone" certo non dicono.
Puoi anche svuotare il Senato, dopo le Province, ridurre il numero degli aventi diritto ad un seggio e selezionare i senatori tra quelli che uno stipendio da eletto ce lo hanno già, tipo consiglieri regionali e sindaci. Si risparmia qualcosa, ma quello che si spende continuerà ad essere tanto. I quasi mille dipendenti, siamo sereni, rimarranno tutti pure loro come i colleghi delle Province, fino ad estinzione naturale. Ma oltretutto, che farà il nuovo Senato? Quale parametro ne indicherà la "produttività"?

Della legge elettorale non possiamo dire nulla tranne che qualunque effetto produrrà non sarà abbastanza per avere il potere necessario per governare – potere che con l'attuale Costituzione neanche una stratosferica maggioranza parlamentare dà; né sarà sufficiente la determinazione da tank di Matteo Renzi-Capo del Governo per riuscire a fare di una legge, una legge vera nel momento in cui viene promulgata, eseguita e il suo impatto effettivamente valutato. Il "Governo del Presidente", d'altronde, è di là da venire - se mai verrà - visto che in Italia 'presidenzialismo' non è una parola trendy: ha in sé un senso così spiccato di obbligo alla decisione!

E veniamo al Jobs Act che, nella parte dedicata al mercato del lavoro, delinea una traccia di buone intenzioni saccheggiate dalle più avanzate pratiche europee di vent'anni fa - Regno Unito, Germania, Danimarca. Un'agenzia unica dei centri per l'impiego non crea d'emblée un sistema pubblico di collocamento capace di accompagnare le persone senza lavoro in un percorso di costruzione e valorizzazione della propria appetibilità professionale, fino a nuova assunzione.

Questo è il metro. Il punto di partenza italiano però lo conosciamo. Sono troppi i livelli decisionali, troppi i margini di discrezionalità ed incertezza di leggi e burocrazia, quindi troppo margine al furto. Troppa, poi, la diseducazione al Diritto, l'abitudine al favore, troppo il pregiudizio per il profitto, il mercato, la competizione aperta e trasparente. Cosa pensa di fare Renzi per impedire che le nostre strade costino tre volte più di quelle di tutti gli altri, che Burocratopoli continui ad usare solo il burocratese, che i no-a-tutto possano chetarsi, accendere una torcia, illuminare la strada e scoprire che fare un passo avanti può non essere così spaventoso?

Presi pezzo a pezzo i nostri problemi fanno talmente paura che le soluzioni più complesse e approfondite ci appaiono sempre non abbastanza. A ciascun pezzo razionale del problema tuttavia corrisponde un pezzo emotivo di democrazia - una voce, un interesse, un principio. Questi pezzi vanno raccordati. Grillo non ha interesse a farlo. Berlusconi non lo ha mai avuto. Il segretario del PD invece ne ha la profonda necessità. Una necessità antropologica, prima ancora che politica.

Renzi è uomo del suo tempo, nel male e nel bene. Un tempo che chiamiamo "di transizione" solo perché ci siamo dentro. È il tempo in cui la rivoluzione si fa con un like comodamente dal divano, e la nuova economia scopre la frontiera della taylorizzazione del km zero. È qualcosa che cambia, anche in profondità, e i cui effetti noi viviamo, ma forse non vediamo. Le cose cambiano senza pianificazione, senza controllo, ad un ritmo ed in forme diverse da quelle che le strutture mentali già testate ci orientano ad immaginare. D'altronde sono state le tecnocrazie poliglotte a nazionalizzare le banche europee, non l'ideologia collettivista fallita nel tentativo di raggiungere proprio quell'obiettivo.

Quanto sistemico possa essere il cambiamento che Matteo Renzi ha avviato forse però possiamo già cominciare a compilare la prima riga dello spartito che suona: Fiom rottama Cgil. Maurizio Landini sfida la lobby dei non-produttori, chiede rappresentanza per gli outsider, quelli che per lo più producono. Ovviamente la lobby non gliela dà, ma lui se la prende lo stesso. Sfida necessaria e benefica che non riguarderà solo Cgil, né riguarderà solo il sindacato. È una sfida al mondo produttivo, ed è stupefacente come l'arma scelta dal sindacalista Landini non sia il ricatto ma la democrazia. Quindi è vero che si può cambiare il sistema anche semplicemente abbattendo tabù.

@kuliscioff