Due mesi sono passati dal trionfo renziano alle elezioni europee. Un consenso inedito che - come si era osservato sul mensile di Strade - consentiva al presidente del Consiglio di consolidare la sua leadership in Italia e in Europa, costruendo una piattaforma politica e di governo che si concentrasse sul lungo periodo, lusso che dalle nostre parti è concesso a pochi.

Renzi

Se ai numeri si aggiunge l’evanescenza di un’opposizione che offre agli italiani da una parte Vito Crimi e Casaleggio, dall’altra Brunetta, Salvini e Gasparri, appare evidente come a Renzi si sia presentata un’occasione d’oro per abbandonare definitivamente il linguaggio e la retorica delle primarie di partito e vestire finalmente i panni del capo di un governo di coalizione (peraltro di un paese in forte crisi), affermando una leadership sì forte, ma aperta, responsabile, “adulta”.

Non è avvenuto.

In Europa, il “matador” (così lo chiamò scherzosamente Angela Merkel all’indomani della vittoria) è in affanno: sulla delicata questione delle nomine comunitarie la battaglia per ottenere la guida della politica estera si profila ardua. Pare poi - dicono alcuni retroscenisti di Bruxelles - che i colleghi di Renzi poco ne apprezzino lo stile da “rottamatore” in trasferta. Si vedrà.

La sparizione tra le nebbie della miracolistica tabella di marcia delle riforme, stilata a febbraio; l’insofferenza mostrata dai “grandi giornali” nei confronti del governo; la marcia indietro sui prepensionamenti a “quota 96”; i dati sconfortanti sull’occupazione giovanile; gli effetti scarsamente salvifici dei famigerati ottanta euro in busta paga; il lungo travaglio della riforma del Senato: i sintomi di un certo affanno anche in casa non mancano. La vittoria di giugno, insomma, non sembra aver sortito alcun effetto.

Invece, sembra che sia piuttosto avvenuto il contrario. Anziché aprire una strada nuova, quei numeri hanno gonfiato a dismisura la “vecchia” narrazione del rottamatore solo contro tutti. Ho i voti, quindi io e il mio governo abbiamo ragione a prescindere; chi frena è un sabotatore; chi dialoga perde tempo; chi critica può anche andarsene; i tecnici devono adeguarsi; gli italiani sono con me, contro i parrucconi della politica e i mandarini di partito. Narrazione che ricorda alcuni predecessori di Renzi, anzi uno in particolare. D’altronde, la vulgata del renzismo come rebranding del berlusconismo non è certo una novità. Usata spesso a sproposito dai suoi oppositori, pare voler essere confermata a tutti i costi dall’atteggiamento del premier stesso. Al di là della tendenza alla battuta se non alla barzelletta, al di là dell’attenzione per la comunicazione diretta con l’elettorato e alla familiarità con il linguaggio dei media (per il Cavaliere era la televisione, per Renzi Twitter), è proprio lo sbandieramento di questa presunta “immunità”, conferita tramite unzione popolare, ad accomunare renzismo e berlusconismo. Con alcune differenze, però.

Silvio Berlusconi è stato eletto “direttamente” (pur nei limiti delle diverse leggi elettorali) alla guida del governo per tre volte. Matteo Renzi, no. È premier per chiamata, come i suoi due predecessori: nulla di male, naturalmente, ma è un pedigree che rende scivoloso avventurarsi sul terreno retorico della “legittimazione popolare”.

Silvio Berlusconi poteva - e in parte può ancora, sebben in misura molto minore - contare su un potere mediatico ed economico con cui puntellare e veicolare la sua narrazione in modo straordinariamente efficace. Matteo Renzi, no.

Silvio Berlusconi aveva, soprattutto all’inizio della sua avventura politica, una visione del mondo - economica, politica, estetica - certamente discutibile, ma immediatamente identificabile: la polemica contro i comunisti, le toghe rosse e i giornalisti di sinistra, la lotta ai lacci e lacciuoli dello Stato (prima di appesantire la spesa pubblica come e più di chi lo aveva preceduto), una politica estera filoatlantica (prima di innamorarsi di Putin). Matteo Renzi, no.

Il renzismo si regge ancora sulla Leopolda: un’operazione ben riuscita, adatta alla temperie di una competizione interna al Partito democratico, ma troppo poco. Troppo poco per delineare un profilo politico anche solo lontanamente paragonabile a quel che ha fatto Blair nel Partito laburista, tanto per fare un esempio (di questo, ha scritto Simona Bonfante). Troppo poco per spiegare come si intende governare l’Italia. Tutto suggerirebbe, insomma, che sarebbe opportuno dotare premier e governo di un nuovo profilo, a beneficio di entrambi.

Ma finché Renzi persevererà nell’insofferenza verso chiunque osi disturbare il manovratore, finché si circonderà di gente la cui unica mansione è ricordare al capo del governo quant’è figo il governo, finché insomma sarà convinto di bastare a se stesso e al paese, il renzismo triumphans continuerà ad apparire pericolosamente simile al berlusconismo vincente degli anni d’oro. Con la prospettiva, però, di durare meno.