La sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il premio di maggioranza senza soglia e le liste bloccate per l'elezione dei parlamentari mostra significativi limiti, sia rispetto ai termini di un'immediata auto-applicabilità, sia in rapporto alla questione della coerenza e ragionevolezza della normativa di risulta.

1. Premessa.

Come era prevedibile, le motivazioni della sentenza di illegittimità costituzionale del c.d. Porcellum hanno provocato numerose reazioni: alcune conformisticamente osannanti; altre pregiudizialmente ostili.

Vi è poi chi, come chi scrive, dalla lettura delle motivazioni ha maturato un sentimento di rispettosa perplessità, determinato, malgrado la sostanziale condivisione delle ragioni di illegittimità costituzionale sul premio di maggioranza e sulle liste bloccate del Porcellum, che determinano effetti distorsivi già denunciati in occasione dell'elezione del Capo dello Stato, dalla convinzione che la sentenza sembra presupporre il successivo arrivo delle salmerie, nella forma di una nuova legge elettorale che i partiti dovranno necessariamente adottare, dopo i metaforici (ma nemmeno troppo) schiaffi della Consulta.

In altri termini, la lettura della sentenza mostra, oltre ad evidenti forzature interpretative, una generale sottovalutazione della complessità degli effetti che la decisione provoca, cosicché l'affermazione dell'immediata applicabilità della normativa residua sembra più una petizione di principio necessaria per giustificare l'intervento demolitivo, che una convinzione fondata su solide basi argomentative. D'altronde, il recentissimo varo dell'Italicum pare dare ragione a questo atteggiamento di generale noncuranza del concreto funzionamento della legge elettorale ora vigente, poiché tutta l'attenzione si è rapidamente spostata sulla proposta di nuova legge elettorale, la cui adozione è data per scontata.

2. La verifica dell'immediata applicabilità della legge vigente come condizione necessaria per valutare l'operato della Consulta

Sembrerebbe, quindi, un inutile esercizio quello di analizzare la legge elettorale oggi vigente, ma, in realtà, non lo è, perlomeno sotto il fondamentale aspetto della sua immediata applicabilità. Difatti, la stessa Corte ha ribadito che "le leggi elettorali sono "costituzionalmente necessarie", in quanto "indispensabili per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali", dovendosi inoltre scongiurare l'eventualità di "paralizzare il potere di scioglimento del Presidente della Repubblica previsto dall'art. 88 Cost.".

In altri termini, il nostro ordinamento costituzionale non può ammettere un vuoto legislativo in materia elettorale; ne consegue che la pronuncia di illegittimità presuppone logicamente l'accertamento della necessaria verifica dell'immediata applicabilità della disciplina restante, ma, a nostro parere, non solo nel senso che non debbano essere necessari interventi legislativi, ma anche che la disciplina restante non produca i medesimi o diversi effetti distorsivi, in quanto un postulato del nostro ordinamento costituzionale deve essere quello per cui le pronunce della Consulta non possono determinare una situazione di illegittimità costituzionale.

Riguardo quest'ultimo elemento, si potrebbe obiettare che non vi sono precedenti in tal senso. Sarebbe, però, agevole replicare che ciò è assolutamente vero, ma solo perché la sentenza n. 1/2014 è un unicum nella nostra giurisprudenza costituzionale, che ha scardinato tutte le antiche certezze, a partire da quelle in materia di ammissibilità, cosicché oggi per evitare zone franche, la Corte ha sostanzialmente ammesso un'azione quasi – diretta. Infatti, in virtù di questo precedente, ora qualsiasi legislazione elettorale potrà essere oggetto di questioni di costituzionalità sollevate in (fittizi) giudizi di accertamento della violazione dei diritti politici dei cittadini, magari con riferimento alla congruità del premio di maggioranza, delle modalità di scelta dei candidati, della proporzionalità di eventuali soglie di sbarramento ecc..

Tornando al nostro ragionamento, ci pare comunque ragionevole che nel caso in esame, il Giudice delle leggi non solo dovesse scrutinare rigorosamente la disciplina residua per verificarne l'immediata applicabilità, ma sottoporla al medesimo scrutinio di ragionevolezza e proporzionalità per valutarne, anche in modo sommario, gli effetti, muovendo dalla consapevolezza che un riparto meramente proporzionale dei seggi calato su una normativa improntato a una logica premiale può produrre risultanti assai diversi da una legge proporzionale tout court.

D'altronde, a nostro modesto parere, la Corte avrebbe potuto limitarsi ad accertare l'illegittimità costituzionale del premio di maggioranza e delle liste bloccate, senza giungere alla loro dichiarazione di illegittimità in ragione dell'eventuale non immediata applicabilità della disciplina residua o, a nostro avviso, anche per i suoi effetti incostituzionali. In ogni caso, proveremo a dimostrare che, sotto entrambi i profili, la pronuncia della Corte risulta insoddisfacente.

3. La verifica dell'immediata applicabilità per il voto di preferenza

Al riguardo, si ritiene opportuno iniziare l'analisi dal punto meno controverso, cioè quello dell'immediata applicabilità della normativa residua, nel senso della non necessità di interventi legislativi.

Come è noto, la Corte ha affrontato espressamente questo punto, affermando che la normativa residua "stabilisce un meccanismo di trasformazione dei voti in seggi che consente l'attribuzione di tutti i seggi, in relazione a circoscrizioni elettorali che rimangono immutate, sia per la Camera che per il Senato" e, soprattutto, "per quanto riguarda la possibilità per l'elettore di esprimere un voto di preferenza, eventuali apparenti inconvenienti, che comunque non incidono sull'operatività del sistema elettorale, né paralizzano la funzionalità dell'organo possono essere risolti mediante l'impiego degli ordinari criteri d'interpretazione, alla luce di una rilettura delle norme già vigenti coerente con la pronuncia di questa Corte". E in ogni caso, "simili eventuali inconvenienti potranno, d'altro canto, essere rimossi anche mediante interventi normativi secondari, meramente tecnici ed applicativi della presente pronuncia e delle soluzioni interpretative sopra indicate. Resta fermo ovviamente, che lo stesso legislatore ordinario, ove lo ritenga, potrà correggere, modificare o integrare la disciplina residua".

La Corte ha, quindi, ritenuto che la disciplina sul voto di preferenza sia di diretta applicabilità, sulla base di un'interpretazione evolutiva e conforme alla sua decisione delle restanti disposizioni, richiedendosi tutt'al più una normazione secondaria di mero dettaglio tecnico. In verità, quest'argomento non è pienamente condivisibile, perché sarebbe stata necessaria, come aveva chiesto il giudice rimettente (la Corte di Cassazione), un'operazione di cosmesi normativa per rendere coerente il testo residuo.

D'altronde, è stato già evidenziato che non esiste nel nostro ordinamento la categoria dell'incostituzionalità implicita. Quindi, gli effetti che la Corte ritiene siano già conseguibili con riferimento alle disposizioni che regolamentano la confezione della scheda elettorale e, soprattutto, l'assegnazione dei seggi (secondo l'ordine di presentazione, recita ancora oggi la disposizione), avrebbero dovuto essere conseguiti attraverso il ricorso all'illegittimità consequenziale ex art. 27, legge n. 87 del 1953, (secondo il quale la Corte costituzionale, "quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, (...) dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata") e ora, in mancanza di tale intervento cosmetico, dovrebbe comportare la necessità di un intervento legislativo, anche con decreto-legge, per risolvere i menzionati inconvenienti.

Ma anche aderendo alla tesi (non condivisibile) dell'interpretazione evolutiva in senso conforme, la disciplina del voto di preferenza non è immediatamente applicabile, perché questa potrebbe comunque applicarsi alle restanti disposizioni vigenti, ma non anche alle disposizioni mancanti.

Infatti, la previsione delle liste bloccate ha determinato l'assenza nella legge elettorale di quelle disposizioni che sono necessarie per stabilire la validità del voto e/o della preferenza espressa. Al riguardo, ci sovviene in aiuto sia la formulazione originaria della legge elettorale che, come è noto, prevedeva un sistema proporzionale con voto di preferenza, che conteneva diverse disposizioni che risolvevano positivamente (in senso tecnico, cioè la legge stabiliva la soluzione) questioni di frequente verificazione nella prassi elettorale, sia la vigente legge proporzionale sul voto degli italiani all'estero, la quale prevede che "il voto di preferenza è espresso scrivendo il cognome del candidato nella apposita riga posta accanto al contrassegno votato. È nullo il voto di preferenza espresso per un candidato incluso in altra lista. Il voto di preferenza espresso validamente per un candidato è considerato quale voto alla medesima lista se l'elettore non ha tracciato altro segno in altro spazio della scheda" (art. 11, legge n. 459/2001).

Naturalmente, è ragionevole presumere che le medesime disposizioni sarebbero applicate alla disciplina elettorale delle circoscrizioni sul territorio nazionale, ma nessuno può realisticamente mettere in dubbio che a tale fine sia necessaria una disposizione di legge anche solo di rinvio, a meno di non sostenere un (inesistente) potere di adeguamento interpretativo dell'ordinamento giuridico alle sentenze di illegittimità costituzionale. Quanto appena detto, dimostra che, con riferimento al voto di preferenza, l'affermazione dell'immediata applicabilità non pare condivisibile, sembrando necessaria un'integrazione legislativa che disciplini le modalità di valida espressione del voto di preferenza.

4. La normativa residua è ragionevole e proporzionale?

Già questo primo riscontro rafforza il convincimento che si sia presupposto che la normativa residua non debba mai essere in concreto applicata e pertanto non possa mai essere comprovata la necessità di un'integrazione legislativa, ma, come anticipato, c'è un altro elemento, che ci appare di maggior rilievo, cioè il mancato scrutino sulla ragionevolezza e proporzionalità della legge residua, che, per la verità, non sembra essere immune da profili di dubbia legittimità.

A tale proposito, va preliminarmente osservato che l'introduzione di un'unica preferenza rappresenta un elemento di irragionevole incoerenza sistematica, in quanto è in contrasto con la con la lettera della legge sulle circoscrizioni estere, la quale prevede che ciascun elettore può esprimere due voti di preferenza nelle ripartizioni alle quali sono assegnati due o più deputati o senatori e un voto di preferenza nelle altre.

Inoltre, la previsione di un'unica preferenza costituisce una misura legislativa contraria al principio dell'art. 51 Cost., secondo il quale la Repubblica promuove le pari opportunità per l'accesso alle cariche elettive, perché, con molta probabilità, essa avrà come diretta conseguenza la significativa riduzione della componente femminile nella rappresentanza parlamentare. Si precisa che tale osservazione prescinde da qualsiasi giudizio di valore sulle pari opportunità. Si può anche non essere d'accordo, ma nessuno può dubitare sulla vigenza dell'attuale formulazione dell'art. 51 Cost. e in questo senso pare singolare che la pronuncia della Consulta determini la sua sicura compressione, nonché più in generale una significativa compressione del principio di uguaglianza sostanziale perché determina una ridotta chance di essere eletto di tutti gli outsider, con vantaggio di coloro che dispongono di maggiori risorse economiche o relazionali.

Ma vi sono altri aspetti più importanti che non sembrano superare un vaglio di ragionevolezza e proporzionalità, ponendosi addirittura in contraddizione con le argomentazioni adoperate dalla Corte.

Si fa riferimento, in primo luogo, alla previsione di soglie di sbarramento differenziate per le liste appartenenti a coalizioni e quelle autonome. La predetta differenziazione, infatti, aveva l'evidente finalità di promuovere, attraverso la previsione dell'attribuzione del premio di maggioranza, l'apparentamento tra liste per garantire una migliore stabilità. In questa prospettiva premiale poteva essere giustificata una soglia più elevata per le liste autonome, atteso che il premio di maggioranza favoriva la tendenza all'aggregazione. In altri termini, i partiti maggiori avevano interesse ad aggregare intorno a sé il maggior numero possibile di liste per conseguire i vantaggi del premio di maggioranza, e ciò poteva giustificare la previsione di una soglia più alta per la lista che decideva di correre da sola. In definitiva, le soglie di sbarramento differenziate erano una misura molto efficace di promozione delle coalizioni.

Ma in un sistema elettorale "proporzionale", le soglie differenziate perdono di senso, perché viene meno la menzionata tendenza aggregazionale. È un aspetto sul quale si è poco riflettuto, tutti presi dalla discussione sulla nuova legge elettorale. La legge elettorale vigente potrebbe però essere un'autentica mannaia per la rappresentanza parlamentare, perché, in assenza di un premio di maggioranza, i partiti maggiori non avrebbero nessun interesse, e anzi ne avrebbero uno contrario, ad apparentarsi con quelle liste che sicuramente supererebbero le soglie interne, ma che potrebbero non superare quelle previste per le liste autonome (ad esempio, NCD, SEL e, oggi, anche SC), allo scopo di ripartirsi, proporzionalmente tra loro, un maggior numero di seggi derivanti dall'esclusione della rappresentanza parlamentare di tutte quelle liste che non superino le onerose (e nel caso del Senato quasi impossibili) soglie di sbarramento per le liste autonome. Residuerebbe per i partiti maggiori l'interesse a stringere intese elettorali con quei partiti/movimenti che potrebbero non superare nemmeno le soglie interne alla coalizione, al fine di acquisire un maggior numero di seggi, grazie ai loro voti.

In definitiva, la legge elettorale vigente può essere considerata soltanto apparentemente proporzionale, perché è in grado di produrre una significativa sovra rappresentazione parlamentare dei principali partiti, senza peraltro consentire una maggiore governabilità.

Ma non è questo l'unico effetto distorsivo della vigente legge elettorale sulla rappresentanza parlamentare: ve n'è, infatti, un altro che riduce in realtà il margine di scelta dei propri rappresentanti che, invece, la Corte ha dichiarato di volere ripristinare con l'indicazione della preferenza, ferme restando tutti le criticità già evidenziate. Va, però, osservato la reintroduzione (apparente) di un sistema interamente proporzionale si innesta in un contesto concepito per una diversa logica elettorale e che pertanto potrebbe determinare altre disarmonie costituzionali. Si pensi alla modalità di riparto dei seggi che continua ad avvenire secondo un meccanismo di assegnazione a livello nazionale/regionale, che aveva senso in una logica premiale, e potrebbe dunque tornarne ad averne in futuro, ma collide con la logica del proporzionale con voto di preferenza, nella quale l'assegnazione dei seggi dovrebbe avvenire a livello circoscrizionale, dove è più forte il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti.

Tra l'altro, tale modalità di assegnazione dei seggi può determinare un esito diverso da quello che avrebbe voluto il corpo elettorale, non tanto sul numero dei seggi da attribuire ad una lista, ma a chi dichiarare eletto. Peraltro, non bisogna dimenticare che resta in vigore il meccanismo delle candidature multiple illimitate e che, dunque, i partiti possono continuare ad esercitare una significativa influenza sulla concreta scelta degli eletti, ad esempio candidando ovunque i propri leader, i quali verosimilmente faranno incetta dell'unica preferenza che penalizza gli outsider, per poi decidere in quale circoscrizione farli dichiarare eletti.

5. Conclusioni

In conclusione, la sentenza n. 1/2014 può essere definita una sentenza di illegittimità di monito (o di rabbiosa supplica), nel senso che dopo avere tentato invano di sensibilizzare il legislatore a modificare la legislazione elettorale, essa abbia infine deciso di ricorrere all'illegittimità come rimedio estremo per costringerlo obtorto collo. Ciò aiuta a spiegare la disinvoltura con la quale è stata affrontata la questione dell'immediata applicabilità della normativa residua, nonché l'assenza di un suo scrutinio di ragionevolezza e proporzionalità, che, a nostro parere, in virtù della specificità della materia oggetto del giudizio, in questo caso avrebbe dovuto essere compiuto per potere avere la certezza che gli effetti di una declaratoria di illegittimità costituzionale non sarebbero stati essi stessi costituzionalmente illegittimi. Infatti, tale scrutinio diviene inutile se si opera sulla base del convincimento che la legislazione elettorale residua sia destinata a restare sulla carta e quindi l'affermazione sull'immediata applicabilità è una mera petizione di principio, mai verificabile in concreto, strumentalmente necessaria per potere giungere alla dichiarazione di illegittimità.

In quest'ottica, assume un diverso significato il passaggio sulla piena legittimità dell'attuale Parlamento. Naturalmente, non si vuole mettere in discussione la legittimità giuridica degli atti adottati o adottandi, ma constatare che il giudizio di illegittimità dovrebbe comportare come logica conseguenza il rinnovo del procedimento elettorale per sanare il vulnus ai principi fondamentali della Costituzione (naturalmente, nelle uniche forme previste dalla Costituzione, ossia con decreto di scioglimento delle Camere del Capo dello Stato, che di fronte ad una motivazione che avesse affermato tale necessità per ripristinare la legalità costituzionale, non avrebbe potuto fare diversamente).

Infatti, pare opportuno ricordare che la Consulta ha posto alla base delle sue decisioni argomenti pesantissimi, sostenendo che il premio di maggioranza del Porcellum rappresenti "un'alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto" e che il fenomeno delle liste bloccate così come è stato realizzato nella citata normativa "ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione".

L'incontestabile conseguenza di tutto ciò è che oggi ci si trova di fronte a un Parlamento nel quale tutti i singoli parlamentari non godono di nessuna legittimazione nei confronti dell'elettorato e la cui composizione risulta gravemente viziata, a causa della sovra rappresentazione di quel partito che, tra l'altro, oggi esprime (o comunque ha contribuito significativamente ad eleggere) il capo dello Stato, il Capo del governo, il Presidente del Senato, il Presidente della Camera e il Presidente della Corte e che ora, noncurante di questa sua illegittima posizione di forza, sta operando intensamente per adottare non solo una legislazione elettorale - minestrone, ma una radicale riforma del testo costituzionale, grazie alla copertura della piena legittimità.

Al riguardo, è davvero imbarazzante il raffronto con le contestuali motivazioni del TAR Piemonte, che su una vicenda oggettivamente meno grave, cioè le firme false per la presentazione della lista "Pensionati per Cota", ha stabilito che dall'accertamento dell'illegittima ammissione di una lista "non può non trarsi la dovuta conseguenza che da tale illegittima ammissione viene invalidato e travolto tutto il procedimento elettorale, complessivamente inteso, che va quindi rinnovato".

Naturalmente, il TAR Piemonte aveva la serenità di potere contare su una legislazione elettorale funzionante ed efficace, il timore è che la Consulta non avesse la stessa serenità e che quindi abbia avuto la necessità di legittimare politicamente l'attuale Parlamento per scongiurare il rischio di scoprirsi nelle vesti di un moderno dottor Frankenstein.