renzi grillo

Il recente esito del primo turno delle elezioni presidenziali austriache, come è già stato evidenziato, sembra essere un’occasione propizia per riaffrontare un tema già sollevato all’indomani dell’entrata in vigore dell'Italicum, cioè il rischio che la ricerca della stabilità, attraverso l’adozione di una logica elettorale premiale, finisca paradossalmente per favorire nel concreto soluzioni politicamente “instabili”.

Per provare a spiegare questa potenziale eterogenesi dei fini, sembra opportuno evidenziare che l’adozione della nuova legge elettorale si fonda implicitamente su presupposti fattuali che non necessariamente si avvereranno - ed anzi appare probabile il contrario, almeno per qualcuno di essi – e su due generali pregiudizi che da almeno un ventennio inquinano la discussione pubblica sulla legislazione elettorale.

Il primo presupposto fattuale è stato quello di ritenere scontato il buon esito della riforma costituzionale, appena approvata dalle Camere. Tale assunto ha indotto alla forzatura di promulgare una legge palesemente non conforme alla Costituzione attualmente vigente, essendo stata dichiaratamente plasmata su quella che (forse) verrà. A prescindere dalle considerazioni più propriamente giuridiche, ciò potrebbe creare il primo effetto destabilizzante, qualora il voto referendario del prossimo autunno fosse negativo; ci troveremmo, infatti, in una situazione di assoluta impasse con due (significativamente) diverse legislazioni elettorali per le due Camere e, forse, nell’impossibilità politica di rimediare per i prevedibili sconquassi degli attuali equilibri che l’eventuale vittoria del NO verosimilmente produrrebbe. In definitiva, siamo in presenza di un vero e proprio azzardo politico-istituzionale che rischia di costare carissimo al Paese proprio in termini di stabilità politica e istituzionale.

Il secondo presupposto fattuale è stato quello di assumere il voto delle scorse elezioni europee come indice elettorale del soggetto politico che presumibilmente si sarebbe aggiudicato il premio di maggioranza. Ciò ha indotto a sottovalutare gli effetti distorsivi della rappresentanza della nuova disciplina elettorale, non solo con riferimento alla possibilità che essa sia affetta dal medesimo vizio di incostituzionalità riscontrato per il Porcellum (al riguardo, si rinvia al contributo citato sopra), quanto piuttosto all’omissione di una predeterminata soglia per l’attribuzione del premio nel turno di ballottaggio (che presunto come eventuale, è già divenuto una quasi matematica certezza per la natura chimerica della previsione del 40% al primo turno), onde evitare il rischio di determinare un meccanismo del tipo “chi arriva primo piglia tutto”. In definitiva, manca una “clausola di sicurezza” del sistema, la quale consenta di neutralizzare il pericolo che soggetti elettorali “destabilizzanti” possano, a determinate condizioni, assumere il pieno governo del Paese.

Strettamente legato a quello appena detto, vi è il terzo presupposto fattuale: la convinzione che il naturale beneficiario del premio di maggioranza sia il PD. In effetti, questa convinzione era vera al momento dell’adozione dell’Italicum: tutti i sondaggi erano concordi nel dire che, o al primo turno o al ballottaggio, il vincitore sarebbe stato comunque il PD. L’errore, semmai, è stato quello di assolutizzare una situazione di fatto, dovuta a plurimi fattori contingenti: la tradizionale luna di miele del nuovo Governo, peraltro distintosi subito per il suo giovanile dinamismo e per l’ambizioso carico di speranze; il basso livello di affluenza (circa il 20% in meno delle ultime elezioni politiche); l’apice della crisi della leadership berlusconiana; le incertezze del primo significato approccio istituzionale del M5S (con lo stillicidio di espulsioni e/o abbandoni dei neoeletti parlamentari).

La situazione nel frattempo è decisamente mutata e non poteva essere diversamente proprio per la contingenza dei fattori che avevano prodotto quella situazione. Il PD sembra tornato a livelli di consenso più realistici; nel centro destra c’è una fase di convulsi cambiamenti che potrebbero preludere ad una sua nuova riarticolazione e all’emergere di nuove leadership, alcune delle quali fondate su un maggiore radicalismo identitario e/o nazionalistico; il M5S vive un fisiologico processo di lenta istituzionalizzazione, come dimostrano alcune candidature, mediaticamente presentabili, alle amministrative e l’individuazione di un nucleo nazionale di guida che dovrebbero consentire un’effettiva competizione per la governance.

La conseguenza di questi mutamenti è che adesso il premio di maggioranza è divenuto effettivamente contendibile e ciò, per l’appunto, rende acuta la mancanza della “clausola di sicurezza”, in quanto ciò rende concreta la possibilità di improvvisi salti politici nel buio di un radicalismo nazionalistico e/o protestatario, magari a seguito dell’avveramento di alcuni dei fattori di rischio sistemici che gravano sul nostro Paese. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di ulteriori scosse telluriche all’area euro (Grexit) o alla stessa Unione Europea (Brexit) ovvero a nuove ondate incontrollate di migranti con i conseguenti muri (metaforici e non) nazionalistici ovvero a nuovi scandali politico-giudiziari di ampio respiro che, purtroppo, non possono mai escludersi nel nostro Paese ovvero a spettacolari attentati terroristici di matrice islamista. In altri termini, la sostanziale assenza di una soglia minima per l’aggiudicazione del premio di maggioranza (infatti, sulla base dei dati storici delle elezioni politiche la possibilità che al primo turno un unico soggetto elettorale superi il 40% può considerarsi un’ipotesi scolastica) può permettere di amplificare le reazioni isteriche ed emotive dell’elettorato di fronte ad eventi traumatici, con la conseguenza di favorire la radicalizzazione della domanda politica e l’affermazione di soggetti politici “avventurosi”.

Purtroppo, sembra si possa pagare pegno alla miopia strategica dell’attuale classe dirigente, forse vittima dell’euforia dei suoi improvvisi successi, e dei due pregiudizi inquinanti cui si faceva cenno prima, vale a dire lo sfavore per la logica elettorale proporzionale e per i governi di coalizione. Non si vuole sostenere che l’unica alternativa possibile o preferibile fosse un sistema proporzionale - si ritiene che, ad esempio, anche un sistema maggioritario con collegi uninominali potrebbe essere idoneo a ridurre considerevolmente il rischio di derive elettorali radicali, a causa della vicinanza dei candidati al bacino elettorale di riferimento – ma soltanto evidenziare che sovente la discussione pubblica sulla legislazione elettorale abbia prescisso dall’analisi dell’effettivo stato dell’elettorato italiano, preferendo enfatizzarne la capacità rimodellante.

Ormai invece dovrebbe essere chiaro che, piaccia o non piaccia (e a chi scrive non piace), l’elettorato italiano è particolarmente articolato e non riducibile, almeno nel breve periodo, in due sole offerte politiche. Peraltro, può anche osservarsi che storicamente vi è una maggioranza “moderata”, o più correttamente sistemica, e una costante presenza massimalista, che tende ad oscillare tra un quinto e un terzo dei consensi. In questo contesto, il sistema proporzionale potrebbe svolgere il duplice ruolo di argine delle forze politiche di sistema e, soprattutto, di elemento catalizzatore nel lungo periodo dell’inclusione delle forze massimaliste, in quanto in questo sistema l’unica concreta possibilità di governo è quella coalizionale che implica necessariamente il prevalere delle posizioni dialoganti.

Esattamente il fenomeno opposto a quello che può accadere in una competizione premiale, senza clausole di sicurezza, che può invece favorire la conflittualità e l’ascesa al potere dei soggetti radicali o comunque rallentarne il processo di maturazione istituzionale.
In conclusione, se la previsione del premio di maggioranza comunque subordinato al conseguimento di un minimo di voti (anche nel turno di ballottaggio, magari a seguito di possibili apparentamenti) potrebbe rappresentare un condivisile correttivo per favorire la governabilità, l’assenza di qualsiasi “clausola di sicurezza” rischia di rappresentare l’antefatto di (dis)avventure politiche che il Paese non sembra in grado di potere sopportare.