Più flessibilità di bilancio e una politica monetaria accomodante potrebbero essere perfino dannose, se il sistema produttivo italiano non si adeguerà al nuovo paradigma tecnologico e all’avvento della terza globalizzazione. Analizzare e riconoscere le nostre debolezze è il primo passo per poter costruire nuovi punti di forza.

Ginefra lavavetri

Da anni, il dibattito di politica economica si è concentrato su come contenere e qualificare la spesa pubblica (spending review) senza ridurre la domanda aggregata. Purtroppo, non bastano le politiche economiche keynesiane tradizionali a dare risposte adeguate agli shock strutturali che, dalla fine degli anni novanta, il sistema produttivo italiano ha dovuto metabolizzare, tra cui:

  • l’accesso, nel 1999, all’Unione Monetaria che, pur creando numerose opportunità, ha tolto al decisore pubblico la possibilità di effettuare le svalutazioni talvolta necessarie per recuperare le perdite di competitività registrate nel tempo;
  • il cambio di paradigma tecnologico, di cui hanno goduto soprattutto le multinazionali americane già a partire dalla metà degli anni novanta grazie alla rivoluzione high-tech, non ancora recepita pienamente in Italia;
  • l’avvento della terza globalizzazione in corrispondenza dell’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 2001, e dello sviluppo delle Catene Globali del Valore (GVC) in Asia orientale, che ha eroso alle imprese italiane quote dei mercati internazionali.

È, dunque, auspicabile concentrarsi anche sulle politiche a sostegno dell’offerta che consentano all’economia italiana di ricominciare a crescere grazie a un sistema produttivo riorganizzato in modo da poter competere, nonostante questi shock, sui mercati internazionali, non tanto per far crescere gli avanzi delle partite correnti (obiettivo riduttivo e puramente mercantilistico), quanto per ingrandire i mercati di riferimento e, grazie a rapporti prezzo-qualità competitivi, difendere, laddove necessario, anche le quote di mercato domestiche.

A tal fine, si può avviare una riflessione sui punti di debolezza del nostro sistema produttivo che consenta di elaborare politiche industriali volte non a scegliere campioni nazionali da finanziare con fondi pubblici, ma a disciplinare e incentivare trasversalmente operatori e mercati in modo da renderli più competitivi.

In particolare, il decisore pubblico dovrebbe riflettere sugli aspetti macro e micro economici che hanno ritardato la crescita negli ultimi trenta anni: nel 1980, il reddito pro-capite italiano (calcolato con il metodo della parità del potere di acquisto) era pari al 94 per cento di quello tedesco; nel 2000, dopo la riunificazione tedesca, al 97 per cento e nel 2014, dopo la Grande Recessione, al 76 per cento. Dare la colpa all’euro farebbe perdere di vista il problema: se la lira si fosse svalutata nei confronti del marco tedesco, probabilmente, il potere di acquisto del reddito pro-capite si sarebbe comunque ridotto nei confronti del reddito tedesco.

Per meglio comprendere quanto avvenuto è necessario riflettere sugli effetti della terza globalizzazione: a seguito della caduta delle frontiere commerciali, si sono aperti nuovi mercati sia di sbocco, sia di approvvigionamento dei fattori produttivi. Le GVC, generate dall’abbattimento delle barriere tariffarie da parte dei paesi avanzati e dalle politiche di incentivi agli investimenti diretti esteri (che accelerano i processi di catch-up tecnologico) implementate dai paesi emergenti, hanno consentito alle imprese di effettuare arbitraggi tra diverse regolamentazioni e differenti livelli salariali, segmentando i processi produttivi in modo da minimizzare i costi di produzione.

Il grande soggetto di questo processo è stata la Cina, fabbrica del mondo in grado di ricevere investimenti diretti esteri e di acquistare macchinari più o meno sofisticati. Gli squilibri globali finanziari (global imbalances) sono stati il risultato di questo processo: enormi avanzi delle partite correnti cinesi, gestiti dal fondo sovrano appositamente creato “CIC”, compensate da enormi disavanzi registrati in particolare dagli Stati Uniti.

Le imprese italiane hanno dovuto gestire questo cambiamento, posizionandosi o a monte della GVC, dove si progettano nuovi beni, o a valle, dove si commercializzano i prodotti di eccellenza con brand di alta qualità. Alcune imprese attive nel settore del lusso sono state acquisite da multinazionali francesi che dispongono di reti distributive in grado di imporre i propri prezzi alle classi medie dei paesi emergenti. Le imprese di eccellenza nel settore della meccanica sono state, invece, inserite come “terzisti” nei processi produttivi delle multinazionali tedesche.

Peraltro, queste ultime hanno potuto estrarre, con i loro marchi, i sovraprofitti legati alla qualità dei prodotti da loro commercializzati, ma prodotti, in parte, da imprese italiane. Molte imprese italiane hanno, invece, perduto quote di mercato e si sono rivolte inutilmente al mercato domestico, in fase di consolidamento. Per gestire questi scenari sarebbero state necessarie eccellenti capacità di analisi e di gestione delle dinamiche di geo-politica e di geo-finanza, disponibili, dati gli elevati costi della consulenza strategica, solo a grandi imprese.

Complesso è anche il processo di adeguamento ai nuovi paradigmi tecnologici. L’innovazione, di processo e di prodotto, è l’elemento chiave per guadagnare quote di mercato ed estrarre sovraprofitti. L’obiettivo strategico è rappresentato dal conseguimento di rapporti “qualità-prezzo” che consentano alle imprese di essere competitive sui mercati internazionali a più alto valore aggiunto. Tradizionalmente, gli operatori cercano di ottenere questo risultato sfruttando nicchie di mercato difese da barriere tariffarie e “non”.

Nel mondo globalizzato queste barriere cadono e diviene necessario sfruttare le economie di scala per assorbire gli elevati costi fissi delle reti distributive (che garantiscono lo sfruttamento delle dimensioni dei mercati internazionali) e dell’attività di Ricerca e Sviluppo, altamente rischiosa (per l’aleatorietà dei risultati) e non adeguatamente protetta (per l’assenza, sovente, di efficaci normative internazionali). La sfida viene resa più complessa dalla diffusione di approcci produttivi fabless (intesi nel senso più ampio) e di fabbriche intelligenti (la cui gestione richiede capitali e professionalità di alto livello).

Come abbiamo visto, la globalizzazione e il cambio di paradigma tecnologico richiedono, entrambi, che le imprese dispongano di dimensioni in grado di assorbire i costi associati all’assunzione e elaborazione delle informazioni di scenario e agli investimenti in innovazione tecnologica. Purtroppo, le imprese italiane sono per lo più medio-piccole: al policy-maker spetta, dunque, il compito di elaborare politiche in grado di farle crescere. Accanto ai tradizionali incentivi fiscali destinati agli investimenti, è necessario sviluppare un sistema finanziario che favorisca i processi di aggregazione (da incentivare anche fiscalmente). Non possono certo essere le banche tradizionali, che offrono la liquidità per finanziarie il ciclo delle scorte sulla base di garanzie personali e/o reali, a consolidare le filiere produttive.

È, invece, necessario disporre di banche di investimento (per individuare i processi di mergers & acquisition e favorire le operazioni di quotazioni in borsa e le emissioni di debito sui mercati), e di fondi di private equity (PE) e di venture capital, in grado di comprendere le potenzialità delle imprese, di valutare i loro asset immateriali e di entrare a far parte della loro compagine azionaria. È anche strategico per le piccole e medie imprese disporre, a prezzi compatibili con le loro disponibilità, di servizi di consulenza legale, tributaria e strategica per ridurre tempi e costi di inserimento in nuove realtà commerciali e per selezionare eventuali partner nei nuovi mercati di insediamento.

In caso di mercati lontani e complessi, la costituzione di fondi di PE bilaterali può offrire alcune soluzioni ai tradizionali problemi legati alle asimmetrie informative e ai comportamenti scorretti (moral hazard) di una parte degli operatori. I fondi di investimento bilaterali dovrebbero, infatti, consentire agli investitori dei paesi sottoscrittori di condividere le informazioni relative alla all’affidabilità delle società oggetto di investimento e alla struttura dei mercati di insediamento.

La soluzione di alcuni dei problemi strutturali esposti (dimensione inadeguata delle imprese in scenari caratterizzati da un’accelerazione della globalizzazione e dell’innovazione) potrebbe portare l’Italia a registrare tassi di crescita più elevati di quelli ottenuti nel recente passato: ad una maggiore crescita potenziale nel lungo periodo, si affiancherebbe, nel breve periodo, una più elevata domanda aggregata grazie ai maggiori investimenti in capitale fisico e umano, necessari per consentire alle imprese di operare efficientemente in mercati più complessi.

Alla luce di queste considerazioni, continuare a rivendicare una maggiore flessibilità del bilancio pubblico da affiancare alla già accomodante politica monetaria della Banca Centrale Europea senza avviare la necessaria ristrutturazione del sistema produttivo italiano potrebbe risultare addirittura dannoso, in quanto attira l'attenzione dell'opinione pubblica e dei policy maker su aspetti secondari delle politiche a sostegno della crescita. Gli investitori domestici e internazionali – i veri attori della ripresa - attendono, infatti, di vedere non solo come l’amministrazione pubblica si riorganizza, ma anche come gli imprenditori italiani ristrutturano le loro imprese in vista di ruoli di leadership in mercati internazionali sempre più articolati.