Il dibattito sulla crisi del governo Conte e della maggioranza giallo-verde ha una volta in più evidenziato la straordinaria importanza che l’uso dei simboli religiosi ha per strutturare il consenso politico contemporaneo. Non basta, infatti, fare riferimento alla tradizione cattolica italiana, non basta – come ha fatto improvvidamente il senatore La Russa – richiamare, a mo’ di giustificazione dei sovranisti/cristianisti, l’utilizzo dello scudo crociato come emblema della Democrazia Cristiana. E ciò perché la storia del cattolicesimo liberale e democratico italiano – da Rosmini a Manzoni, a Murri, a Sturzo, a De Gasperi, a Moro – nulla ha a che fare con la strumentalità dell’immagine confessionale per legittimare – d’Autorità - la posizione politica dominante.

Sturzo – fondando il Partito Popolare Italiano – fu chiaro nel definirlo partito di cattolici e non partito cattolico; De Gasperi, ancora, seppe con forza affermare la laicità e l’indipendenza dell’impegno politico dei credenti opponendosi, dapprima, a quei clerici che osannavano il regime fascista e la conciliazione con la Chiesa e, in seguito, contraddicendo Papa Pacelli che, tra il 1951 e il 1952, premeva per un accordo – a Roma – tra democratici cristiani e missini. Moro, da ultimo, descrisse sempre l’ispirazione cristiana come l’origine morale dell’impegno politico ma non come fonte normativa di un programma di Potere da imporre - senza mediazioni - nella realtà di un Paese complesso.

“Discrezione” e “prudenza” nel maneggiare le idealità religiose sono state intese, dai Padri dell’impegno pubblico dei cristiani, come attenzione e rispetto del pluralismo democratico, come interesse per i mutamenti del sentire civico. La comune radice liberale e popolare di tale prospettiva ha saputo, dunque, ben distinguere tra ciò che la Legge deve regolare per tutti e ciò che deve essere lasciato al libero esercizio della coscienza personale.

Sul drammatico passaggio della legge sul divorzio, ad esempio - così come emerso, tra l’altro, dagli atti della Accademia di Studi storici Aldo Moro, in occasione della cerimonia per il XXIV anniversario della morte del grande statista, Roma, 14 maggio 2002 - Moro rifiutò di leggere nella vittoria del No al referendum abrogativo (come fece, invece, Pasolini) un segno di deterioramento valoriale della società italiana non più “tradizionale” ma sottolineò, piuttosto, il segno di un più ampio margine di responsabilità individuale, di scelta libera. Così tutelando, quindi, la dignità e il valore tanto della scelta a favore che di quella contro l’abrogazione della legge sul divorzio.

Ed oggi? Salvini, nel corso del dibattito il 20 agosto scorso, ha rivendicato l’ostentazione del Rosario e l’affidamento al Cuore Immacolato di Maria come strumento operativo ed efficace di aggancio alla volontà popolare e come fonte legittimante la battaglia politica e spirituale contro gay e famiglie non tradizionali.

Conte, da parte sua, nella foga polemica contro l’ex alleato leghista, ormai dipinto come traditore e irresponsabile, ha denunciato le “madonne” e i “rosari” armati contro immigrati e presunti invasori, dimenticando, però, il proprio e rivendicato “Padre Pio” esibito come un amuleto da Vespa e il “San Gennaro” del proprio socio Di Maio, inginocchiato nel rito del bacio dell’ampolla del sangue liquefatto. Renzi, da parte sua, ha rintuzzato il nemico eresiarca rievocando il Vangelo – “ovviamente Secondo Matteo” – “perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato [25,35-44]”, Il tutto per negare l’ortodossia dell’azione politica del ministro degli interni e la linea dura sui “porti chiusi”.

E dato che esiste anche una teologia politica negativa, una religione politica degli idoli immanenti, e non meno mitopoietica, ci è toccato anche ascoltare il Senatore grillino Morra il quale, prototipo militante della demagogia giudiziaria, nemico dello stato di diritto e del buon senso, ha qualificato come “madonna di ndrangheta” quella di Salvini, torcendo la devozione popolare dei calabresi per strumentalizzarla contro il barbaro padano convertitosi malamente nel Santuario o, meglio, nei summit di Polsi.

Orbene, qualche sostanziale differenza a me pare dunque emerga tra l’ora e l’allora della politica dei credenti italiani.

Per fortuna, però, anche la triste contingenza - tra le grida di devozione, gli applausi ferventi, le venerazioni fideistiche, gli afflati emotivi e le preghiere questuanti che hanno accompagnato gli interventi al Senato di tutti questi leader alle prese con l’uso e l’abuso del cristianesimo - ci offre una prospettiva diversa: il silenzio e il deserto – forse l’interessato e pavido disinteresse - che ha accompagnato l’intervento di Emma Bonino (davvero l’unica parlamentare espressione di quella autentica fede/altra e nell’Altro di cui parlava Pannella) ci ha saputo riportare tutti sulla terra, alla prova concreta e umanissima di quegli interessi indicibili mascherati clericalmente.

E così la leader radicale ha ricordato a Conte, a Di Maio e ai Grillini, la tragica inefficacia delle “dissociazioni postume” dal sodale caduto in disgrazia, e ha rammentato ai democratici e ai c.d. “responsabili” - pronti a sacrificarsi per la continuazione della legislatura - che un governo non ne vale automaticamente un altro e che, oltre la legittimità formale della manovra parlamentare, hanno valore e senso anche le critiche ad una operazione squisitamente trasformistica.

Un’operazione che rischierebbe di riproporre nella nuova maggioranza giallo/rossa – magari rinforzate e più violente – le velleità costruttivistiche di quel populismo semplicista che, nonostante l’apocalissi del governo del cambiamento, sembra non aver abbandonato il sogno distopico di una società perfetta e di giusti (contro, quindi, l’antiperfettismo cattolico di Rosmini), di un paradiso in terra edificato sull’inferno degli avversari declassati a nemici e criminali da redimere, dei disperati da respingere fuori il “filo spinato” del nostro recinto.