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L’adesione di Salvini all’idea di convocare un referendum popolare sulla Tav è solo apparentemente un’apertura democratica e razionale alla soluzione definitiva di una questione spinosa.

In realtà si tratta di una fuga dall’onere di decidere, da parte di chi ha gli strumenti per decidere e il dovere istituzionale di farlo. Il ricorso al referendum non “dal basso”, per portare all’attenzione del potere istanze ignorate dal potere, ma dall’alto, da parte del potere stesso, sembra essere diventato la malattia senile di una democrazia rappresentativa che insegue il consenso ma fugge le responsabilità.

Sulla Tav, pur di non decidere abbiamo visto ministri invocare taumaturgiche “analisi costi-benefici”, non meglio identificati pareri tecnici - quanto fanno comodo i tecnici quando servono appunto ad accollarsi il peso di un sì o di un no - che arriveranno chissà quando, su un’opera della quale si sa tutto e di cui si è sviscerato tutto. E “se dall’analisi sui costi e benefici non dovessero arrivare risposte chiare” (Salvini ha detto proprio così) allora tiriamo il pallone ancora più lontano e facciamo un referendum. Decida il popolo: “chi siamo noi per opporci?” chiosa Di Maio. Appunto, chi siamo?

E chi dovrebbe decidere di un’opera di pubblica utilità che va da Torino a Lione? I torinesi? I Valsusini? Gli italiani? I francesi? E gli abitanti delle aree interessate da eventuali progetti alternativi, non avrebbero il diritto di dire la loro? E il parere di chi più genericamente avrebbe un vantaggio dalla realizzazione dell’opera, che valore avrebbe? E siamo pronti, domani, ad usare lo stesso strumento per decidere su ogni termovalorizzatore, ogni discarica, ogni rigassificatore, ogni ripetitore telefonico, ogni raddoppio autostradale o tunnel ferroviario? Il “popolo” è un’entità tanto utile quanto astratta, servibile e inservibile al tempo stesso, ma sempre invocabile come un incantesimo.

Eppure in casi come questi il referendum è l’esatto contrario dell’analisi costi-benefici e il rovescio peggiore della democrazia. È la democrazia trasformata in una sorta di X-Factor, con la giuria popolare che esautora - costi quel che costi - la politica dalle sue responsabilità, in uno show in cui il ministro dell’interno, quello delle infrastrutture e quello dello sviluppo economico possono limitarsi a raccogliere gli applausi, a dire tutto ma a non decidere nulla, a cambiarsi d’abito tra un tweet e l’altro come le vallette di San Remo.

Il referendum è servito a Tsipras per farsi lanciare come un kamikaze sulle istituzioni europee, salvo uscirne con le ossa rotte, e a Cameron per trascinare il suo paese di fronte al baratro della Brexit. Il referendum - quello tante volte evocato, anche in campagna elettorale, sull’Euro - potrebbe tornare di nuovo utile alla maggioranza giallo-verde quando il muro verso il quale stiamo andando a sbattere sarà troppo vicino per riuscire a frenare. Non per fermarsi in tempo, quindi, ma solo per cedere il volante prima di lanciarsi col paracadute.

Oggi, intanto, il referendum serve a Salvini per non dire che la Tav non va fatta evitando al tempo stesso di farla, per tranquillizzare chi la vuole senza mettere troppo in apprensione chi non la vuole. Che belle le nuove élite.