Da genitori, o potenziali tali, tutti vorremmo che tutti i bambini venissero al mondo nelle migliori condizioni possibili e che fossero sempre felici; la realtà, tuttavia, è che quelle condizioni riguardano solo un numero molto ristretto di casi, ed è impossibile sapere a priori quali. Vietare tutto ciò che ci spiazza non è una soluzione.

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In queste settimane, è impossibile sfuggire alla discussione su cosa sia oggi la filiazione, sia in relazione all’adozione, da parte di coppie omosessuali o di single, sia per quanto riguarda gli strumenti di procreazione assistita o di surrogazione.

Adozione e procreazione sono, all’apparenza, situazioni molto diverse. Nel primo caso, il risultato è l’inserimento nella propria sfera familiare di bambini già nati; nel secondo si acquisisce invece la possibilità di "creare"un figlio servendosi di tecniche sanitarie, del materiale genetico altrui, oppure della disponibilità a portare a termine una gravidanza a beneficio di altri. Questo processo può comportare una transazione di tipo economico, un compenso per i donatori di gameti o per la surrogazione, spesso mascherato da copertura delle spese.

Nemmeno l’adozione, tuttavia, avviene gratuitamente: sia essa internazionale o nazionale, è un’operazione lunga, complessa, con una spesa nell’ordine delle decine di migliaia di euro, che non va a beneficiare i genitori né i futuri figli, ma solo intermediari di vario titolo (avvocati e organizzazioni preposte a superare l’immensa burocrazia del settore, ma non solo).

È doveroso precisare che a essere “in vendita” non sono mai i bambini: un bambino è una persona, titolare unica dei diritti sulla propria vita, alcuni dei quali eserciterà solo quando avrà la capacità giuridica per farlo. Cos’è allora che si scambia e che si compra? Ad essere alienati sono in realtà i diritti genitoriali, ossia quel fascio di diritti e doveri relativi al minore che l’ordinamento giuridico riconosce ai genitori del bambino. Per molto tempo, l’origine dei diritti genitoriali su un bambino è stata la partecipazione al concepimento dello stesso – né poteva essere diversamente, in un’epoca in cui la tecnologia non aveva ancora reciso quel rapporto causale. Si tratta quindi di diritti che ancora oggi sono associati al contributo genetico e fisiologico alla nascita. Non diversamente dal caso dell’adozione, ciò che avviene con la donazione del proprio materiale genetico o della propria capacità procreativa è la cessione dei diritti genitoriali, diritti che altrimenti ricadrebbero sul donatore o sulla madre surrogata.

È quindi doveroso chiarire: in nessun ordinamento esiste, né esiste nella visione liberale, il diritto ad “avere” un figlio, così come non esiste il diritto a possedere un’altra persona. Esiste invece il diritto a non essere discriminati. E se la capacità biologica di fare figli non è più l’unico criterio per la genitorialità, la legge ha il dovere di non istituire discriminazioni all’accesso che non siano giustificate da serie ripercussioni sul minore. È il caso di sottolineare, ad esempio, che il riconoscimento dell’adozione gay non significa che qualunque coppia potrà adottare, ma solo che anche le coppie formate da due uomini o due donne avranno accesso alle (anche troppo) rigorose procedure di screening per capire se ci sono le condizioni affinché l’affidamento sia positivo per il bambino.

L’accesso a una procedura di analisi caso per caso delle condizioni per l’affidamento di un minore può essere limitato solo con argomenti forti. Il prestigioso giornale accademico Social Science Research ha pubblicato un ampio meta-studio di 1.900 ricerche accademiche portate avanti da psicologi e sociologi dal 1977 al 2013, riscontrando un generale consenso dell’ambiente scientifico sul fatto che non ci sia nessuna variazione significativa, in termini di felicità, performance scolastica, risultati raggiunti nella vita, o altro parametro, fra i bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali e quelli vissuti in qualsiasi altra conformazione familiare.

È naturale restare spiazzati di fronte a qualcosa di così radicalmente diverso rispetto al modo in cui siamo abituati a concepire la famiglia e il rapporto genitori-figli. Preoccuparsi che i bambini crescano senza che manchi loro nulla è normale. Qualsiasi genitore, madre o padre, desidererebbe che al proprio figlio non manchi nulla. E questo è di per sé bellissimo. Ma il passaggio dall’etica personale alle decisioni su come organizzare la società – su cosa si possa legittimamente imporre agli altri – è oltremodo complesso. Se un genitore ricercherà niente di meno che la perfezione, per il proprio figlio, i regolatori dovranno invece compiere scelte che prendano in considerazione le imperfezioni comparate. E dovranno chiedersi se, regolamentando una certa situazione, quello che otterranno sarà non già un’approssimazione alla perfezione, ma la creazione di situazioni ancora più gravi. Quando prendiamo parte al dibattito su cosa si debba permettere e cosa no, sarebbe una grave ingenuità prendere come pietra di paragone una qualche situazione ideale. Si tratta di un errore noto come nirvana fallacy – un errore in cui è tanto più grave incorrere, quanto più importante è l’oggetto della nostra attenzione.

Nirvana fallacy è vietare l’adozione per gay e single sulla base del diritto del bambino ad avere un padre e una madre. L’alternativa alla quale il bambino viene sottratto, infatti, non è quella di avere una famiglia perfetta, bensì crescere in case-famiglia o passare di affidamento in affidamento. Oggi in Italia ci sono circa 20.000 minori – numero approssimativo, perché non c’è nemmeno un’anagrafe pubblica – ospitati in strutture d’accoglienza, per un business da circa un miliardo di soldi pubblici l’anno. In media ci restano 3 anni, e solo uno su cinque (una delle medie più basse in Europa) viene dato in adozione o affidamento alle più di 10.000 famiglie che sono da anni in lista d’attesa.

Altra conseguenza del divieto di adozione per coppie gay, così come del fatto che l’adozione sia così regolamentata, costosa e incerta anche per le coppie eterosessuali, è orientare sempre più persone, che magari di per sé preferirebbero adottare, verso quelle forme di filiazione medicalmente assistita che tanti dubbi sollevano in chi ha a cuore il benessere dei bambini. Pur astenendosi da giudizi morali su queste, però, è difficile non considerare che la priorità sia di riunire un bambino già esistente a chi – in qualunque conformazione familiare – ne desidera uno a un punto tale da sottoporsi, magari, a dolorosi, costosi e stressanti trattamenti medici.

Nirvana fallacy è il voler vietare l’erogazione di compensi per le adozioni di feti prima della nascita, in quanto ciò costituirebbe una forma di “mercificazione” del bambino. L’alternativa è però che una madre che non è in condizione di crescere un figlio, per motivi economici o personali, possa ricorrere all’aborto. Senza addentrarsi in giudizi di merito, è difficile affermare che un essere che nella maggior parte degli ordinamenti dei Paesi occidentali, tra cui il nostro, non ha diritto alla vita abbia però il diritto a non essere mercificato. O che sia preferibile l’aborto alla cessione dei diritti genitoriali su quel bambino. Se una qualsiasi di queste pratiche – la maternità surrogata, l’adozione dietro compenso, la fertilizzazione in vitro, ecc. – fosse impedita, possiamo davvero pensare che ciò avvenga nell’interesse di quel bambino, o dei suoi diritti?

Nel momento in cui si uniscono i gameti di un uomo e di una donna, quello che si forma è un individuo unico e irripetibile. Tolta quell’unione, quel particolare individuo non sarebbe mai esistito. Prendiamo il caso della surrogacy e dell’adozione gay. Ammesso che crescere senza una madre comporti danni irreparabili, non è chiaro da dove venga la certezza che crescere senza una madre – o nascere in virtù di un particolare tipo di tecnica, considerata da alcuni immorale o innaturale – sia peggio che non nascere affatto. Ed è paradossale una posizione che si erge a difesa del nascituro auspicando delle barriere alle sue possibilità di venire al mondo, per di più in un contesto dove è sicuramente atteso e desiderato.

Nirvana fallacy è il rifiuto della maternità surrogata per la ragione che essa costituirebbe una forma di sfruttamento delle donne. Il termine “sfruttamento” fa riferimento a un’interpretazione marxista secondo cui una persona che accetti di svolgere una prestazione degradante e a basso compenso sia sottoposta di fatto a una forma di costrizione, in base all’ipotesi che in condizioni di maggiore benessere non avrebbe accettato di offrire quella prestazione a quelle condizioni. Anche assumendo la bontà dell’argomento, affinché esso si applichi a un caso particolare occorrerebbe conoscere l’identità della donna che ha condotto la gravidanza, ed accertarne l’eventuale condizione di povertà.

Non è per nulla scontato che la maternità surrogata sia appannaggio esclusivo di donne povere e disperate. È anzi possibile che tale prestazione sia offerta da donne mosse dal desiderio di aiutare altre coppie a diventare genitori. Ma, se anche restiamo sul primo caso, dobbiamo domandarci se il divieto di maternità surrogata, o della sua erogazione dietro compenso, costituisca realmente una tutela della donna. La risposta – valida per qualsiasi lavoro consideriamo degradante – è no, poiché per definizione quel divieto costituisce una limitazione del ventaglio di scelte che quella persona ha di uscire dalla propria condizione di indigenza. Non sembra esserci molta consequenzialità nel voler tutelare la dignità o il benessere di una persona precludendole una scelta che in tal senso può esserle di aiuto. Nemmeno è lecito sostituirsi al giudizio della donna, e alla libertà che essa ha di utilizzare il proprio corpo – che dovrebbe essere uno dei baluardi del pensiero femminista – in nome di una presunta natura “degradante” della prestazione richiesta, giacché l’atto di portare a compimento una gravidanza, sia pur a beneficio di un’altra coppia, sarà recepito in modi diversi a seconda della sensibilità di ciascuna.

La nascita di un individuo è per definizione un evento su cui il nascituro non ha voce, e che comporta l'assunzione di responsabilità da parte di terzi, e non ci possono essere garanzie che tali responsabilità siano rispettate. La famiglia tradizionale non è garanzia di felicità così come non lo è nessuna conformazione familiare. Al di là delle preferenze etiche personali, non c’è alcun motivo per ritenere che la fortuna di essere fertili – e magari scapestrati – sia una migliore garanzia di essere buoni genitori rispetto a chi non è in grado di concepire ed è disposto a investire moltissimo, emotivamente ed economicamente, in una nuova vita.

Da buoni genitori, vorremmo che qualsiasi bambino nascesse con le maggiori opportunità di crescere in una famiglia felice: ma la verità è che non possiamo sapere a priori quali saranno le famiglie felici. Nemmeno possiamo stabilire quale metodo di filiazione sia più adatto allo scopo: mentre per alcuni il legame biologico ha poco significato, per altri esso è condizione per amare meglio il nascituro; se alcuni sapranno amare anche un bambino adottato in tarda età, altri sentiranno di volerlo avere con sé fin dai primi giorni.

È legittimo essere preoccupati di fronte ai cambiamenti che investono la società; tuttavia, le incertezze non si risolvono assumendo esista un Panopticon da cui accertare cosa è meglio per tutti, più di quanto possano o sappiano fare i diretti interessati.