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Su “Digital manager” cadrebbe qualsiasi gentiluomo. Ma facciamo finta di non avere sentito l’evocazione del ministro Cingolani sulle professioni del futuro, e consideriamo in ordine sparso le sue censure alla scuola italiana.

Le guerre puniche non si studiano “quattro volte”, ma mezza volta verso la fine delle elementari.

Al biennio delle superiori ci sarebbe un’altra occasione, ma nella prassi la storia romana viene ridotta all’osso e quella dell’Alto Medioevo viene saltata a piè pari (in Italia, eh, dove conoscerla avrebbe una certa importanza).

Le scuole che preparano alle professioni attuali sulla carta esistono, ma in che condizioni versano? Il liceo in cui si studiano economia, diritto e due lingue comunitarie viene ritenuto “quello per le femmine svogliate”. Gli istituti tecnici in cui si insegna l’informatica hanno docenti spesso anziani, non aggiornati e poco motivati, per cui ci si impara a programmare meno che col cugino nerd o col tutorial di Youtube.

Nell’istituto agrario della mia zona, “ignoti” (per non essere accusabile di razzismo) hanno saccheggiato le serre e rubato le attrezzature: da mesi ci si può fare quasi solo teoria. Nel tecnico industriale poco distante i laboratori sono inattivi da anni per mancanza di personale. Nel frattempo il liceo classico, da quando lo sceglie meno del 5% dei ragazzi italiani, è diventato una vera scuola d’élite per allievi ultra-determinati, dove anche i docenti delle scienze naturali calcano di più la mano: il risultato è che spesso si esce più preparati in chimica o in fisica rispetto al liceo scientifico vero e proprio, che, preso d’assalto dal 25% dei ragazzi, sta inevitabilmente abbassando il livello.

Qual è la morale, amico ministro? Che non fate un buon servizio al paese, tu, Odifreddi e tanti altri, quando puntate il dito su “cosa si studia” e “cosa non si studia” nelle nostre scuole. “Le guerre puniche invece del digital management, dove finiremo, signora mia”.

I programmi sono stati riadattati mille volte. Il problema è che i professori sono liberissimi di non rispettarli (come nel caso della storia romana), e anche quando vorrebbero rispettarli devono scontrarsi con il pregiudizio sociale (“la scuola per femmine svogliate”), con la mancanza di strutture (come nel caso dell’agrario), con la loro stessa impreparazione (come nel caso dell’informatica), con l’utenza meno selezionata (lo scientifico scelto da un ragazzo su quattro).

Ma poi il dibattito su “cosa andrebbe studiato” e “cosa non andrebbe studiato” è del tutto sterile proprio perché siamo in un contesto di “libero mercato”: non esiste nessuna materia che non si possa studiare in almeno una scuola, dalla falegnameria alla statistica, dalla danza alla meccatronica, dalla grafica alla biomedicina.

Sulle tanto odiate lingue antiche, ad esempio, il “libero mercato” ha allocato le risorse con molto equilibrio: il classico ha perso quota in favore del linguistico, mentre lo scientifico col latino ha ceduto terreno in favore di quello con l’informatica, cosicché oggi appena un adolescente su 6 fa lezione di latino per tutte le superiori e meno di uno su 20 impara l’alfabeto greco per motivi non scientifici.

La domanda giusta quindi non è “perché non si impara l’economia o l’informatica”, ma “che cosa rende indesiderabile iscriversi alle scuole, già esistenti, in cui si possono imparare?” È questo che dovrebbe togliere il sonno a voi ministri, intellettuali e commentatori.

La scelta della scuola superiore sconta ancora logiche di segregazione sessuale (maschi al tecnico, femmine al linguistico e agli eredi delle magistrali) e di segregazione sociale (scientifico e classico accolgono chi vuole studiare molto in un ambiente protetto). I programmi e i piani di studio contano poco o niente.

Del resto, se sono un ragazzo che ha voglia di imparare, che senso ha andare all’agrario sapendo che avrò le serre distrutte, o al tecnico industriale sapendo che avrò i laboratori chiusi, o all’economico-sociale sapendo che di economia farò solo quattro righe a memoria perché è percepito come “le magistrali facilitate”? Dunque, ogni riga d’inchiostro e ogni secondo di telegiornale sprecati per parlare di cosa si fa a scuola rubano spazio al dibattito su come riuscire a farlo a tutti gli effetti.

Rendiamo efficaci le scuole “al passo coi tempi” che già abbiamo sulla carta, e produrremo schiere di ottimi digital manager. Continuiamo con i luoghi comuni da bar sulle guerre puniche, e produrremo solo giornali per incartare il pesce. E continuiamo con quelle che Cingolani definirebbe “guerre puniche”, cioè inutili e anacronistiche, contro i problemi fantasma della scuola italiana, così di quelli veri continueremo a non parlare e proseguiremo nelle stucchevoli tiritere su “piuttosto che la storia, insegnate l’informatica”.

@pinelliman