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Dell’Amaca del 20 aprile di Michele Serra oramai si è parlato tanto, in un senso o nell’altro. Si è discusso molto delle cause che scatenano i fenomeni di bullismo verso i docenti, ma credo che sia importante analizzare una delle affermazioni che l’opinionista di Repubblica ha scritto nella sua Amaca e cioè che la nostra società ha una «struttura fortemente classista e conservatrice» in cui «vanno al liceo i figli di quelli che avevano fatto il liceo».

Lo dobbiamo fare perché il ruolo della Scuola dell’obbligo non è solo quello di fornire un’educazione di base a tutti, ma anche di sviluppare il pieno potenziale degli studenti, facendo loro colmare eventuali gap educativi accumulati in passato. Se questo non avviene e se la nostra società rimane, sostanzialmente, “statica”, allora questo significa che la Scuola rinuncia al suo ruolo di ascensore sociale e pone le basi per il perpetuarsi di quelle disuguaglianze di reddito e ricchezza, ma non solo, che caratterizzano la nostra società.

 

Chi frequenta i licei?

Iniziamo a dire che i licei italiani assorbono più del 55% della popolazione studentesca delle iscrizioni di chi termina il primo ciclo di studi. Non è quindi corretto dire che al liceo vanno solo i figli di quelli che, ai loro tempi, avevano frequentato il liceo. C’è un grosso però. Ovviamente l’affermazione di Serra non va presa nel suo significato letterale e assoluto, ma in quello relativo. È vero che la popolazione dei licei italiani è fortemente sbilanciata nella sua composizione, privilegiando studenti che provengono da famiglie socialmente avvantaggiate?

Per rispondere a questa domanda ci vengono in aiuto due studi, che seppure non recentissimi sono tuttavia molto attuali, pubblicati nel 2010 dal prof. Daniele Checchi dall’Università di Milano.

Il primo, intitolato “Percorsi scolastici e origini sociali nella scuola italiana” utilizza i dati dell’indagine ISFOL-plus del 2005-2006 per analizzare i fattori che determinano il successo scolastico degli studenti una volta terminato il primo ciclo di studi. Checchi ne individua sostanzialmente tre: le potenzialità individuali (capacità scolastiche), l’ambiente familiare (istruzione dei genitori, status sociale, etc.) e l’effetto ambientale (regione, dimensione del comune di residenza).

Il prof. Checchi conclude che il fattore maggiormente significativo per determinare la scelta di un liceo è il grado di istruzione dei suoi genitori, che domina quello individuale dello studente. «Se si tiene conto che le coppie dei genitori tendono a formarsi anche per affinità culturale (assortative mating) – conclude Checchi - ci si rende conto di come l’ambiente familiare domini l’orientamento scolastico dei figli, anche al di là delle specifiche capacità individuali».

Il secondo studio si occupa dell’orientamento scolastico alla fine del primo ciclo di studi e analizza le motivazioni che spingono le famiglie degli studenti a scegliere un particolare percorso di studi.

L’analisi dei dati mostra come le scelte di pre-iscrizione siano, in prima battuta, pesantemente influenzate dal consiglio orientativo dei professori che però, nel formularlo, non tengono soltanto conto dei risultati di apprendimento degli studenti ma anche dello status della famiglia di provenienza. In pratica, a parità di rendimento scolastico, alla figlia di un avvocato potrebbe essere consigliato un liceo, mentre al figlio di un operaio un istituto tecnico.

Ad un secondo passaggio, scrive Checchi, «le famiglie si discostano parzialmente dai consigli ricevuti, sia verso l’alto che verso il basso, tenendo conto sia dell’istruzione dei genitori che della loro percezione delle competenze possedute dallo studente». Il tutto viene, infine, amplificato da un forte effetto di trascinamento esercitato dalle scelte espresse dai propri compagni di classe.

Il risultato netto, conclude lo studio, è che «il destino scolastico futuro degli alunni viene progressivamente segnato dalle loro origini sociali».

 

La scuola riduce le disuguaglianze?

Dobbiamo essere consapevoli che i bambini che provengono da famiglie con disagio sociale ed economico all’ingresso della Scuola dell’obbligo si trovano in situazione di svantaggio rispetto ai loro coetanei che provengono da famiglie più fortunate. Non è (solo) una questione di reddito ma anche di ambiente: in una famiglia in cui c’è un ambiente culturalmente più favorevole è più facile che i bambini sviluppino prima e meglio certe competenze.

Molti studi (es. Laurin 2015) evidenziano come offrendo servizi educativi di qualità prima della scuola dell’obbligo (asili nido e scuole dell’infanzia), questi svantaggi possano essere ridotti o anche annullati. A questo proposito, che ruolo ha la Scuola dell’obbligo nel colmare queste disuguaglianze?

Possiamo farci un’idea di quel che succede analizzando i dati provenienti dai questionari che gli alunni compilano quando svolgono i Test Invalsi nella classe V della scuola primaria e nella classe II della Scuola Secondaria di II grado. Dalle risposte a un apposito questionario, a ogni studente viene attribuito un «indicatore di status socio-economico (indice ESCS) integrando, sul modello dell’indagine internazionale PISA, tre variabili: il grado d’istruzione dei genitori, il prestigio della professione da essi esercitata e i beni strumentali e culturali presenti in casa (quantità di libri, una scrivania per studiare, ecc.)».

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L’analisi non può che essere parziale (sarebbe interessante conoscere analoghi punteggi, scorporati per indice ESCS, all’ingresso della scuola dell’obbligo) ma è evidente come il risultato dei Test Invalsi sia direttamente correlato all’indice ESCS e come la forchetta tra primo e ultimo quartile rimanga sostanzialmente costante negli anni.

 

Un ascensore sociale bloccato

Sicuramente, nel mondo, esistono sistemi scolastici più bloccati e classisti di quello italiano. Cerchiamo, però, di non essere ipocriti e far finta di non vedere le storture che ancora oggi ci sono e che non hanno un ruolo marginale nel causare quelle vicende che sono salite all’attenzione dei giornali. La scuola italiana, purtroppo, fa molto poco per aiutare gli studenti ad emergere e recuperare le disuguaglianze determinate dalla condizione sociale di partenza. Certamente, ognuno di noi può elencare diversi esempi di “chi ce l’ha fatta” ma questi costituiscono un’eccezione, non la regola.

Alcuni ritengono che questo fallimento sia da imputare al fatto che la scuola italiana è diventata, nel tempo, sempre meno selettiva rispetto al passato. Altri aggiungono che la colpa è dei governi che hanno smantellato l’istruzione pubblica distruggendo l’unica vera scuola degna di questo nome: il Liceo Classico perla della “Riforma Gentiliana”.

Non è vero. La scuola “di una volta” funzionava bene solo perché espelleva dal sistema tutti quegli studenti che non erano adatti a seguirla: era la scuola dell’esclusione. Allo stesso modo il Liceo Classico funziona “bene” perché frequentato dagli studenti bravi, non perché adotti metodologie didattiche particolari che “sviluppano meglio” le menti dei discenti (No, tradurre decine di versioni di greco non è il segreto di una buona istruzione)

La scuola degli ultimi decenni ha sbagliato strada, certamente, ma non perché ha perseguito l’obiettivo di diventare inclusiva, quanto piuttosto perché ha creduto che per “includere” bastasse abbassare l’asticella per far saltare tutti. Ovviamente non è così e il risultato è stato un peggioramento dei risultati di apprendimento dei ragazzi. Ne abbiamo conferma nelle periodiche lamentele dei docenti universitari, che poi, però, si adeguano e abbassano l’asticella pure loro.

Ma se si è sbagliata la strada, non è perché la destinazione finale fosse errata. Dobbiamo puntare a una scuola inclusiva, che aiuti gli studenti a colmare le differenze sociali e riesca a far capire loro che quelle ore che passano sui banchi non siano un’imposizione, ma un’opportunità di crescita. 

In questo modo, probabilmente, avremo anche molti meno episodi come quello di Lucca da commentare.