La bocciatura della riforma rende più complicata ma più urgente la transizione a una forma di governo efficiente. Oggi occorre in primo luogo evitare il caos politico-costituzionale che seguirebbe alla proporzionalizzazione del sistema elettorale. In secondo luogo, per contrastare la crisi di fiducia verso partiti e istituzioni, servirebbe rilanciare un'opzione, come quella semipresidenziale, coerente con la scelta (di diritto o di fatto) diretta dei capi degli esecutivi da parte degli elettori, a ogni livello di governo.

Maran Renzi

Contrariamente a quel che, da più parti, si è propagandato nel corso della campagna elettorale, e a tutti i progetti di riforma elaborati nel passato (in particolare dalla Commissione bicamerale presieduta da D’Alema e poi dal governo Berlusconi), la riforma sottoposta a referendum il 4 dicembre scorso era di portata piuttosto “limitata” e incideva solo su alcuni aspetti del sistema parlamentare e regionale.

Il cuore della riforma, la sua logica costituzionale di fondo, puntava a superare il nostro assetto bicamerale paritario, nel quale, come si sa, le due Camere fanno esattamente le stesse cose (solo la Camera, pertanto, avrebbe dato la fiducia e il Senato avrebbe rappresentato invece gli enti territoriali), e a modificare i rapporti tra Stato e regioni, in modo da renderli più semplici ed evitare le ragioni di conflitto (si era, infatti, detto no al monocameralismo proprio perché c’era, e c’è ancora, l’esigenza di dare voce in Parlamento alle istituzioni territoriali).

In questo modo, la riforma voleva affrontare tre problemi: l’instabilità dei governi, l’irresponsabilità dei governi (perché governi instabili e litigiosi non possono rendere conto a nessuno) e la confusione del processo decisionale. L’obiettivo, in parole povere, era quello di un sistema di governo più stabile, più responsabile e più semplice.

Ma, nonostante la sua portata “limitata”, la riforma, riconoscendo il potere di fiducia solo alla Camera dei deputati e una corsia preferenziale per i disegni di legge ritenuti prioritari dal governo, razionalizzando i rapporti tra lo Stato e le autonomie territoriali secondo il tracciato definito dalle sentenze della Corte costituzionale, e pertanto riducendo di molto le fonti di instabilità e di conflittualità, rinviava a un’idea di democrazia governante nella quale il governo cerca di fare il proprio mestiere: realizzare il programma con cui la maggioranza ha vinto le elezioni.

Si tratta di un’idea di democrazia che è all’opposto di quella uscita vittoriosa dal referendum costituzionale e che, come ha osservato Sergio Fabbrini, “è stata esposta con chiarezza da Gustavo Zagrebelsky. Per quest’ultimo, la democrazia dovrebbe essere un regime politico in cui non ci sono vincitori e vinti, in cui le decisioni vengono prese in Parlamento attraverso accordi trasversali e contingenti tra i suoi membri. In questa democrazia, i rappresentanti sono scelti per le loro qualità sociali, non già per le loro posizioni politiche o programmatiche. Ma se così è, allora come può un cittadino stabilire chi è responsabile per le scelte fatte o non fatte? Ed infatti l’opacità del nostro sistema istituzionale ha prodotto una diffusa irresponsabilità politica. Tant’è che nessuno è considerato responsabile per l’enorme debito pubblico che abbiamo accumulato. La democrazia senza (periodici) vincitori e vinti è in realtà un regime oligarchico. È l’assenza di competizione tra distinte forze politiche che produce l’oligarchia, cioè la permanenza prolungata al potere delle stesse persone. Come è avvenuto nella Prima ma anche nella Seconda Repubblica. Le democrazie hanno bisogno di élite, non di oligarchie. Le prime assolvono una funzione necessaria, le seconde costituiscono invece una degenerazione del processo democratico. Solamente la competizione può produrre il ricambio regolare e pacifico delle élite di governo. E senza competizione in politica, è improbabile che possa esserci il ricambio anche nell’economia e nella società”.

Il nostro declino ha, infatti, tante ragioni, ma una di queste è proprio la cultura del conservatorismo costituzionale che scambia per pregi i limiti del processo costituente del 1947 dovuti alla Guerra Fredda (che gli stessi Costituenti, del resto, avvertivano come limitazioni e condizionamenti, basti pensare che Mortati aveva definito il Senato un “inutile doppione” della Camera).

È appena il caso di sottolineare, infatti, che fu voluto dall’Assemblea costituente un sistema di Governo debole, perché nessuno schieramento politico potesse vincere fino in fondo e nessuno potesse essere tagliato fuori del tutto dal Governo. E un Parlamento lento e ripetitivo sarebbe stato utile freno, volto espressamente a sfiancare qualunque maggioranza uscita dalle urne. La presenza di due Camere investite degli stessi poteri di indirizzo politico e degli stessi poteri legislativi è la contraddizione più vistosa che non ha eguali in altre democrazie parlamentari. Un relitto di quando – come ricordava Pietro Scoppola – ciascuno degli schieramenti temeva il 18 aprile dell’altro. Il punto è proprio questo.

Da quando in Italia si discute di riforme istituzionali, più o meno dalla fine degli anni Settanta, cioè dall’inizio della crisi delle forme politiche tradizionali della rappresentanza (la Commissione Bozzi, infatti, è stata istituita nel 1983), la questione di fondo è sempre la stessa: l’Italia può diventare una democrazia parlamentare normale, oppure no? Vale a dire: può diventare una democrazia nella quale chi vince le elezioni può attuare il suo programma dentro un quadro di garanzie (fornite soprattutto dalla Corte costituzionale) e nella quale la valorizzazione dell’autonomia avviene senza conflitti paralizzanti tra centro e periferia?

Il nodo politico della riforma del bicameralismo stava tutto qui. E come sempre il discrimine, lo spartiacque, è tra chi vuole cogliere l’occasione offerta dalla crisi - dalla crisi economica o dalla necessità di adeguare il nostro sistema istituzionale, poco importa - per innescare un processo di allineamento dell’Italia ai migliori standard europei e chi pensa che questo progetto sia irrealizzabile perché – manco a parlarne – “l’Italia è diversa” e perché “in Italia queste cose non si possono fare”.

Negli altri Paesi chi vince le elezioni nella prima Camera governa, e le garanzie che non travalichi i limiti posti dalla Costituzione sono date dall’organo di giustizia costituzionale e non da un Senato pensato per fare, in modo del tutto anomalo, da contraltare al Governo. Negli altri Paesi le seconde Camere (che non danno la fiducia e dove il Governo non può porre la fiducia) hanno un potere paritario solo sulle leggi costituzionali e poco altro, perché non devono impedire la governabilità.

Insomma, non c’era da una parte la democrazia e dall’altra un tentativo autoritario. Erano a confronto due concezioni della democrazia: l’una è assembleare, fondata sulla cosiddetta centralità del Parlamento; l’altra è fondata sulla responsabilità degli Esecutivi. La prima era propria della peculiarità italiana del Dopoguerra, parte dell’anomalia di un sistema politico caratterizzato dalla mancanza di alternanza. La seconda è propria dei sistemi parlamentari più avanzati.

Con i due referendum del 1991 e del 1993 abbiamo messo in discussione il proporzionalismo e le forme assembleari del nostro Parlamento. È da allora che abbiamo superato la democrazia consociativa per affermare un modello di democrazia governante. E non c'è dubbio che il 4 dicembre, a 27 anni di distanza dal crollo del Muro di Berlino (da quando cioè sono venute meno le ragioni del bicameralismo ripetitivo voluto dai Costituenti), con la proposta di riforma, è stata rifiutata anche questa idea di democrazia.

Com’era infatti prevedibile, con la vittoria del No, si è tornati rapidamente ai riti della Prima Repubblica. Come prima di Renzi e anche prima di “prima di Renzi”. Anche perché la “Costituzione più bella del mondo”, da molti vittoriosamente difesa con le unghie e coi denti, non attribuisce affatto il diritto di scegliersi direttamente il governo al popolo, bensì ai partiti rappresentati in Parlamento, che possono aggregarsi di volta in volta come preferiscono. E, Costituzione alla mano, il Quirinale ha il dovere di cavare dalla legislatura tutto quel che gli riesce. Non per caso sono ricomparse quelle incantevoli formule istituzionali (il governo di scopo, di responsabilità, del presidente, ecc.) che hanno il buon sapore del tempo andato.

Del resto, che questa fosse la vera posta in gioco era chiaro fin dall'inizio e l'abbiamo detto e ripetuto. Ora, com'era prevedibile, con la vittoria del No (dopo un quarto di secolo dedicato al tentativo di dar vita a un sistema di democrazia dell’alternanza), rischiamo di tornare al punto di partenza, cioè ad un sistema politico consociativo fondato su di un sistema elettorale proporzionale. Infatti, qualunque sarà la decisione della Corte costituzionale, che discuterà i ricorsi di incostituzionalità sulla legge elettorale il 24 gennaio, in futuro avremo molto probabilmente parlamenti più frammentati e governi più instabili. In altre parole, il pantano.

Se i giudici costituzionali dovessero decidere di cancellare il premio di maggioranza e il ballottaggio, ne verrà fuori una legge proporzionale simile a quella del Senato (il vecchio Porcellum già modificato da un’altra sentenza della Consulta), che segnerà il ritorno per via giudiziaria a un sistema simile a quello in vigore durante la cosiddetta Prima Repubblica. Se invece l’Italicum verrà confermato (più o meno) così com’è, il sistema istituzionale post referendum (che ha confermato il nostro bicameralismo perfetto) si ritroverà con una legge elettorale maggioritaria alla Camera ed una legge proporzionale al Senato.

Visto l'orientamento delle forze in campo (la Lega, ad esempio, è favorevole a sistemi che la leghino a Forza Italia, ma quest'ultima, invece, vuole le mani libere) è improbabile che si riesca a resuscitare l’ultima legge condivisa, la legge Mattarella, e c’è da scommettere che l'unica via d'uscita sarà in senso proporzionale. È appena il caso di sottolineare che della “riforma in tre punti”, promessa da D'Alema in sei mesi, ovviamente non parla più nessuno. Insomma, un ritorno in grande stile alla Prima Repubblica, che, come canta Checco Zalone, “non si scorda mai”. Con il risultato che la Grosse Koalition, il governo di “larghe intese” (vale a dire un'alleanza tra PD e Forza Italia, se ci saranno i numeri), rischia di essere una strada obbligata (che è poi proprio quel che voleva Berlusconi, il quale non per caso è diventato un alfiere del sistema proporzionale).

Che si possa tornare davvero al buon tempo antico resta, tuttavia, un’illusione. Come si fa a tornare alla vecchia “Repubblica dei partiti” senza i partiti? Allora, infatti, quel sistema elettorale era sorretto da un sistema forte dei partiti. Oggi quelle fratture sociali non ci sono più (sono diverse), non ci sono le forti appartenenze di allora, gli elettori sono più mobili e i partiti molto più deboli. Detto altrimenti, la Prima Repubblica aveva partiti forti che compensavano istituzioni deboli. Ora abbiamo istituzioni deboli e partiti liquefatti.

Come ha scritto il professor Beniamino Caravita: “In verità, la riforma costituzionale era forse l'ultimo tentativo per ridare speranza ad un buon funzionamento della nostra forma di governo parlamentare. Invece, siamo tornati al punto di partenza: dall'entrata in vigore della Costituzione, come è successo nel 1953, e poi nel 1993 e infine nel 2005, scarichiamo sulla legge elettorale tutte le tensioni derivanti da una forma di governo che non è mai stata in grado di garantire la stabilità. Ma questo è un discorso più ampio: oggi, dopo l'esito del referendum, ancora una volta, hic salta”.

Ma facciamo un passo indietro. Dal crollo della Prima Repubblica, consentire ai cittadini di scegliere col voto un leader e una maggioranza è stata la fonte principale di forza e di legittimazione di tutta la strategia riformista sul tema della forma di governo e delle leggi elettorali. Oggi, invece, il bipolarismo, il maggioritario, la personalizzazione, l’elezione diretta (tutti, indistintamente, accomunati sotto l’etichetta del populismo personalistico) sono diventati, nella narrazione che ha preso piede, il segno della fine della democrazia, della abdicazione della politica e di altre terribili catastrofi.

A ben guardare, la crisi dell’Europa (che cresce, si complica e potrebbe mettere in discussione la stessa Unione europea) si è incaricata di dimostrare che il problema fondamentale dell’Italia non è la presunta “emergenza democratica” di cui si è molto parlato negli anni passati lamentando il bipolarismo “forzoso e incivile”, ma la mancata modernizzazione del paese. E dovrebbe aver chiarito a tutti, se ancora ce ne fosse bisogno, che la politica non tornerà “normale” con l’uscita di scena di Berlusconi.

Quello che è avvenuto in questi venticinque anni non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. E, tolto di mezzo il Caimano, non ritornerà l’età dell’oro (che non è mai esistita: la Prima repubblica non era affatto una democrazia priva di difetti). Nel ’94 non si è causata una ferita che attende di essere sanata, ma sono saltate gerarchie culturali che non è possibile ripristinare.

Il guaio è che la competizione bipolare è stata costantemente ipotecata dalla persistenza del precedente sistema istituzionale e dalla struttura incoerente e frammentata delle due principali coalizioni. Ma la nostra Repubblica non è comunque più quella di prima, è già cambiata (in modo spesso involontario e imprevisto: Ilvo Diamanti l’ha definita argutamente una “repubblica preterintenzionale”) e oggi risulta incompiuta, a metà. Il nodo irrisolto non riguarda tanto la legge elettorale, quanto la forma di governo, cioè la qualità della forma di Stato. E con questo rivestimento istituzionale, l’Italia prima o poi sbatterà la testa contro il muro.

È da un pezzo che la premiership è diventata la vera e fondamentale posta in gioco. Al punto che si è fatto dell’investitura popolare diretta (o come se diretta) il perno attorno al quale ruota il sistema, senza, peraltro, introdurre alcun serio contrappeso. Sono passati ventiquattro anni da quando i cittadini hanno risposto inequivocabilmente alla domanda alla base del referendum del ’93: sono i partiti o i cittadini a scegliere il governo? E questo risponde ai partiti o ai cittadini? È dal ’93 che ci siamo abituati ad eleggere direttamente sindaci, presidenti di provincia e (poi) di regione. Nel frattempo, nella considerazione degli italiani, i partiti e il Parlamento hanno toccato il punto più basso.

E potrei continuare: nel 2001, i nomi di Rutelli e Berlusconi erano indicati sulla scheda elettorale; con le primarie scegliamo ormai d’abitudine i candidati per le cariche monocratiche e con le primarie abbiamo scelto il segretario nazionale e i segretari regionali del Pd, facendo volare le decisioni individuali di moltissimi cittadini là dove non erano mai arrivate, nella scelta dei massimi dirigenti. Senza contare che il quadro che emerge dalle trasformazioni degli ultimi vent’anni assegna ai vertici dell’esecutivo italiano il predominio e la regia della produzione legislativa, autosufficienza ed espansione organizzativa e il crocevia dei rapporti con gli enti locali e la comunità internazionale.

Insomma, la politica “presidenziale” è diventata ormai parte integrante della nostra scena nazionale, anche se ancora non si è trasformata in un nuovo equilibrio istituzionale. A dire la verità, non ho mai creduto che il parlamentarismo limitato, il sistema tedesco (magari “alle vongole”) o la riduzione dei parlamentari potessero bastare: too little, too late, direbbero gli americani.

Anche perché, come ha spiegato Giovanni Sartori, “la costruzione di un sistema di premiership sfugge largamente alla presa dell’ingegneria costituzionale. Le varianti britannica o tedesca di parlamentarismo limitato (di semi-parlamentarismo) funzionano come funzionano soltanto per la presenza di condizioni favorevoli”. E come abbiamo visto anche stavolta, “un passaggio “incrementale”, a piccoli passi, dal parlamentarismo puro al parlamentarismo con premiership rischia di inciampare ad ogni passo”. Non per caso, Sartori ritiene che “in questi casi la strategia preferibile non è quella del gradualismo, ma piuttosto una terapia d’urto. Insomma, le probabilità di riuscita sono minori nella direzione del semi-parlamentarismo, e maggiori se si salta al semi-presidenzialismo”.

Il guaio è che oggi in molti prendono atto che non è possibile praticare la vecchia forma della partecipazione alla politica, ma continuano a ritenere che quella forma della partecipazione alla politica e quel sistema politico siano i migliori. E dunque cercano di avvicinarsi a quel modello specifico e di salvare più elementi possibile di quella specifica esperienza. Ma questo atteggiamento nasce da una visione statica e conservatrice. Come si fa a pensare di poter ripristinare il vecchio sistema con un semplice intervento di restauro? Quel che è avvenuto in questi anni (a partire dalla dissoluzione del vecchio sistema dei partiti) non è un incidente di percorso.

Il vecchio sistema dei partiti non torna più, neppure ripristinando proporzionale e preferenze. La “metamorfosi” è già avvenuta. Nel vecchio sistema ci si faceva cittadini nel partito e del partito, perché non si riusciva ad esserlo interamente nello Stato e dello Stato. Adesso che l’identificazione e l’appartenenza (all’ideologia, all’utopia, alla morale del partito) non ci sono più, l’unica strada praticabile è quella di esaltare la possibilità della scelta, la responsabilità della scelta, l’esercizio della cittadinanza nello Stato. Non si tratta di una questione tecnico-istituzionale, ma di una questione etico-politica. Caduti gli stimoli del passato, come si riattiva la partecipazione alla politica? Non è per questo che abbiamo scelto le primarie? Il rispetto della competenza decisionale degli individui non è forse l’unica risposta possibile a una crisi di fiducia ormai incontenibile?

Bisognerà farsene una ragione: oggi nessuno partecipa più alla politica come in passato. Per questo bisogna passare definitivamente da una concezione e da una pratica politica fondate su una dichiarazione e una scelta di appartenenza a quelle fondate sulla responsabilità della scelta per il governo del paese. Non c'è dubbio che il risultato del referendum ci costringe a muoverci ancora dentro al vecchio recinto, con i vincoli di sempre. Il che però non ci impedisce, nel tempo (poco o tanto) che rimane alla legislatura, di puntare ad un sistema elettorale che eviti la frammentazione (con uno sbarramento significativo) e che incentivi la scelta del governo da parte degli elettori (con un premio di maggioranza o dei collegi uninominali).

Ovviamente, con i numeri che ci sono, non è detto che la ciambella riesca col buco. E il rischio dell'ingovernabilità assoluta, del caos, e di una crisi costituzionale (e non solo politica), non è così campato in aria. Un motivo di più per non rinunciare a stabilizzare il sistema anche sul versante dei partiti (primarie aperte e coincidenza tra premiership e leadership).

Resto dell'opinione che il punto di fondo (di nuovo, la questione etico-politica) è che oggi solo la leadership può essere una risposta alla crisi di legittimazione. Da tempo, infatti, sono persuaso che dovrebbe essere il centrosinistra, dovrebbe essere il PD ad avanzare e precisare il tema del (semi)presidenzialismo come complemento necessario dell’Italia “federale” delle tante regioni e dei mille campanili. Non sarebbe ora, del resto, di riconoscere la necessità di uno stato più leggero (il che significa ridurre le occasioni di intermediazione della politica nel funzionamento della società e dell’economia) e di istituzioni più forti?