Oggi sembra essere la società a guidare la rivoluzione in fabbrica e non viceversa, come all’epoca di Ford e della macchina a vapore. La rivoluzione di Industry 4.0 non sarà primariamente tecnologica, ma prima di tutto socio-organizzativa e i suoi esiti dipenderanno da come i vari gruppi sociali guideranno e accetteranno i trend tecnologici e da come in generale la società li premierà o rifiuterà.

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Tante tecnologie e tante soluzioni organizzative possibili
La storia ci ha abituato a studiare le rivoluzioni industriali come una nuova tecnologia principale associata a una forma organizzativa dominante. La prima rivoluzione industriale, quella di fine ‘700, basata sulla macchina a vapore, ha dato luogo alla manifattura di tipo capitalistico, come descritta da Adam Smith. La seconda rivoluzione dell’elettricità e della chimica di fine ‘800 ha generato la catena di montaggio e quindi si è affermata la fabbrica “fordista”. Infine, nel corso della terza rivoluzione, il computer e la microelettronica applicata alle macchine hanno dato luogo all’automazione industriale.

Che cosa c’è di nuovo nella rivoluzione di Industry 4.0 che si preannuncia oggi? Una prima novità sta nell’introduzione di molti tipi di nuove tecnologie applicabili sia ai sistemi manifatturieri sia ai servizi di massa come sanità, trasporti, banche, pubblica amministrazione… Si tratta infatti di tecnologie che riguardano diverse attività e aree di lavoro: ad esempio le macchine utensili (come la stampa 3D), i sistemi robotizzati (come i robot collaborativi), il trattamento di moli elevate di dati (come i Big Data), il rapporto uomo macchina (come le interfacce intelligenti etc.), i nuovi materiali (come il grafene) e poi le nanotecnologie, l’intelligenza artificiale, il web 3.0, i nuovi computer, l’internet delle cose e così via. Questa ampia varietà di nuovi sistemi consente un’ampia varietà di soluzioni sia organizzative che tecnologiche sconosciute nel passato.

La seconda novità riguarda la possibile retroazione dei sistemi sociali sulle innovazioni tecnologiche. Già nel passato, le grandi rivoluzioni tecnologiche avevano prodotto forti “impatti sociali” che avevano richiesto una lunga opera di umanizzazione, di controllo e di riduzione. Oggi il problema degli impatti si pone in modo molto diverso: infatti, data la complessità e varietà delle soluzioni possibili, risulta molto più importante che in passato la risposta sociale, delle imprese, dei sindacati e in generale dell’umanità alle diverse applicazioni per determinarne il successo o l’insuccesso.

In breve, oggi sembra essere la società che guida la rivoluzione in fabbrica e non viceversa, com’era all’epoca di Ford e della macchina a vapore. Quindi la rivoluzione di Industry 4.0 (se rivoluzione sarà) non sarà una rivoluzione primariamente tecnologica ma prima di tutto socio-organizzativa e poi tecnica. Infatti molto dipenderà da come i vari gruppi sociali guideranno e accetteranno i trend tecnologici e da come in generale la società li premierà o rifiuterà.

Solo i nuovi modelli organizzativi possono adottare le nuove tecnologie

Il fatto che le nuove tecnologie possono dar luogo a modelli organizzativi molto diversi tra loro non significa però che il loro utilizzo sia alla portata di tutti. A mio avviso è illusorio pensare che aziende tradizionali “fordiste” basate su una forte gerarchia, su una elevata specializzazione dei compiti e sulla routine possano adattarsi facilmente alla nuova fabbrica semplicemente con l’acquisto di nuove macchine. Le nuove tecnologie infatti non solo possono modificare radicalmente i processi produttivi, cosa a cui in parte ci ha già abituato l’automazione, ma quasi sempre arrivano a modificare il prodotto e il suo utilizzo e spesso cambiano proprio il rapporto tra produttore e cliente finale. In certi casi mutano radicalmente il sistema di vendita, interferendo con i negozi tradizionali e proponendo forme di personalizzazione molto spinte.

Per arrivare a questi cambiamenti sono necessari non solo piani di investimento in macchinari e sistemi, ma anche progetti di riorganizzazione complessi, piani commerciali e formazione di competenze evolute. In breve, l’uso produttivo efficiente ed efficace di queste innovazioni richiede una intelligenza collettiva, una adattabilità organizzativa e una flessibilità operativa che non sono solitamente proprie delle organizzazioni tradizionali. Il problema non è solo avere dei buoni ingegneri e qualche progettista molto intelligente: sono necessarie nuove forme organizzative in grado di apprendere, di fare sperimentazioni collettive, di sbagliare e di correggersi con grande rapidità, di acquisire velocemente nuove competenze.

Si tratta di organizzazioni a bassa gerarchia, con alto spirito di gruppo, con competenze multiple e in grado di aprirsi a nuove soluzioni e a nuove forme di lavoro. In Italia queste organizzazioni di tipo nuovo sono assai rare. Per accedere a Industry 4.0 è dunque necessaria una rapida evoluzione delle nostre imprese verso forme organizzative nuove, meno gerarchiche, più basate sul lavoro in team più flessibili. L’innovazione organizzativa è una precondizione per Industry 4.0.

Una evoluzione necessaria: dalla “Lean evoluta” alla fabbrica digitale

Ma come arrivare ad organizzazioni così evolute e con queste competenze? Se osserviamo le realtà industriali contemporaneamente sia in Italia che in altri paesi, possiamo constatare che le imprese che iniziano ad adottare con successo le nuove tecnologie digitali sono proprio quelle che nel ventennio scorso si sono già profondamente trasformate nella direzione della “learning organisation”. I cambiamenti osservabili in queste organizzazioni sono riassumibili in due aspetti principali.

In primo luogo cambia l’architettura complessiva del sistema impresa, che si adatta alla nuova situazione di internazionalizzazione dell’economia. Esso assume una nuova configurazione, che viene designata come “Network globale di produzione e di vendita”, cioè un sistema a rete molto complesso, con un unico governo dei flussi logistici, che collega i diversi mercati di sbocco con i diversi poli produttivi, ottimizzando sia la produzione di componenti, semilavorati e prodotti finiti sia la rete di vendita e quella logistica.

In secondo luogo l’organizzazione interna ai poli produttivi di questi network si modifica profondamente per essere coerente con le nuove logiche gestionali e assume le caratteristiche che usualmente sono indicate come “lean evoluta o avanzata”. Con questo si indica il fatto che i classici principi del toyotismo sono sviluppati in modalità organizzative molto più attente all’uso efficace delle tecnologie, al ruolo delle persone e alla specificità di ciascun settore. Nella “lean evoluta” inoltre il miglioramento della qualità del prodotto/servizio è perseguito insieme al miglioramento della qualità del lavoro e della sostenibilità sociale e ambientale sul lungo periodo.

Come cambiano il lavoro e le relazioni industriali

In questi contesti il lavoro cambia profondamente e le tradizionali distinzioni tra lavoro manuale e intellettuale e tra chi decide e chi esegue tendono a ridursi o addirittura a scomparire.

Gli operai si trovano di fronte non solo a netti miglioramenti delle condizioni di lavoro (dal punto di vista di fatica, salute, sporcizia, rumore…) ma anche alla richiesta di lavoro intellettuale, come ad esempio soluzione di problemi, analisi e diagnosi di guasti e anomalie, lavoro in team etc. I tecnici a loro volta hanno informazioni e strumentazioni avveniristiche e molto potenti ma devono anche confrontarsi direttamente con le esperienze pratiche di lavoro oppure acquisirle in proprio col lavoro diretto. Le differenze tra operai e ingegneri si riducono e i confini sono sempre più labili.

Il coinvolgimento diretto dei lavoratori nella gestione e nel miglioramento dei cicli produttivi diventa essenziale, e può assumere diverse forme, come ad esempio il teamworking, la rotazione delle mansioni, il sistema dei suggerimenti e così via.

In sintesi, mi pare che si stia aprendo una stagione di ampio sviluppo delle forze produttive centrato sulle capacità tecniche e su nuove esperienze di tutti gli attori umani dentro le imprese. Questo nuovo contesto, da un lato, mette in crisi le relazioni industriali tradizionali basate sull’idea di un conflitto perenne e senza fine tra azienda e rappresentanti dei lavoratori. Quindi le relazioni industriali si orientano verso forme più cooperative e più orientate a sviluppare innovazione per aumentare i benefici per tutti.

Ma, dall’altro lato, questi nuovi contesti aprono spazi inaspettati per l’azione sindacale. Innanzitutto perché il nuovo bisogno dell’impresa di coinvolgere i lavoratori nella gestione del processo implica un bisogno di consenso, che può rilanciare la forza collettiva dei lavoratori dentro l’impresa. Forza collettiva che era stata ridotta dalle delocalizzazioni e dai processi di internazionalizzazione. Ma, oltre a ciò, si apre un nuovo spazio per il sindacato a causa delle esigenze di umanizzazione delle nuove forme di utilizzo delle tecnologie digitali. Infatti, se le imprese useranno le nuove tecnologie, è probabile che esse saranno guidate principalmente da scopi di profitto e di business. Tuttavia, senza un apporto e un contributo positivo e/o correttivo dei lavoratori e del sindacato, è probabile che non riusciranno ad utilizzarle al meglio, né a dare forme più umane al lavoro.

C’è quindi bisogno di immaginare non solo un utilizzo delle tecnologie a misura di uomo moderno, ma anche un modo di produzione più “umano” e più sostenibile rispetto a quelli del passato.