La tendenza alla rilocalizzazione in Italia di imprese che avevano, nel passato, delocalizzato all’estero è sempre più consolidata, grazie al know-how che favorisce la produzione di qualità. Quello di cui non abbiamo assolutamente bisogno, né come Paese né come continente, sono le illusorie ricette protezioniste di certi movimenti populisti.

Librandi parabola

Uno dei fenomeni più interessanti dell’ultimo anno è rappresentato dalla tendenza alla “rilocalizzazione” in Italia di numerosi stabilimenti detenuti all’estero da imprese italiane. Il cosiddetto reshoring mostra come gli imprenditori italiani, che più hanno puntato sulla qualità dei loro prodotti, trovano a certe condizioni conveniente riportare le loro produzioni in Italia.

Questo avviene magari perché intendono integrarle meglio con i centri di ricerca e sviluppo, o perché vogliono beneficiare di un clima d’innovazione e di qualità più vitale rispetto alle realtà a basso costo dove finora avevano gli impianti.

Nel prossimo futuro, le istituzioni italiane – nazionali e territoriali - dovranno sempre più cogliere l’opportunità di promuovere il fenomeno con misure intelligenti di detassazione e semplificazione burocratica. In particolare, si dovrebbe favorire la valorizzazione per le attività di reshoring delle zone periferiche delle città metropolitane, quelle che più hanno sofferto negli ultimi anni i costi sociali della deindustrializzazione (è una riflessione che si sta portando avanti a Milano ma che potrebbe investire anche altre realtà).

La sfida dei prossimi anni e dei prossimi decenni è inevitabilmente quella di creare in Italia degli autentici poli di eccellenza industriale, in termini di tecnologia e di know-how. Sarà fondamentale attrarre talenti e cervelli (italiani e stranieri) e saranno cruciali le sinergie tra imprese e università, in una ibridazione tra “sapere” e “saper fare” che consentirà a tutti di conquistare valore e competitività.

Nella mia esperienza imprenditoriale con la TCI, ad esempio, consideriamo cruciali le collaborazioni con il mondo dell’università, da ultima quella che abbiamo attivato con il Politecnico di Milano (guidato dal professor Giovanni Azzone, recentemente nominato project manager di “Casa Italia”, il piano di prevenzione per il patrimonio immobiliare italiano lanciato dal governo).

Qualche giorno fa, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha visitato la TCI, nell’ambito di un tour di aziende italiane che da tempo ha intrapreso. Oltre ad avere sperimentato il nostro approccio al welfare aziendale e ai rapporti di collaborazione e coesione tra dirigenti e dipendenti (fattori cruciali per l’industria del futuro), il premier è stato testimone della nostra costante tensione verso l’innovazione di processo e di prodotto. Solo questa caratteristica, insieme alla capacità di essere stabilmente presenti nei mercati più dinamici e promettenti del pianeta, permetterà alle imprese italiane di restare nella Serie A della competizione globale.

Quel di cui non abbiamo assolutamente bisogno, né come Paese né come continente, sono le illusorie ricette protezioniste di certi movimenti populisti, che propongono l’innalzamento di barriere doganali o l’adozione di una moneta nazionale più debole. In un mondo in cui tali suggestioni sembrano apparire attraenti e convincenti, noi italiani dovremmo affermare con forza la preferenza per l’economia aperta e il libero scambio: siamo un paese ad alta vocazione esportatrice e saremmo seriamente penalizzati dalla chiusura delle frontiere o dall’inasprimento delle barriere doganali.

Di cosa abbiamo invece bisogno, in termini di politiche pubbliche? In primis, di un regime fiscale favorevole. Da questo punto di vista, è senza dubbio positiva la scelta della Legge di Stabilità per il 2017 di ridurre la tassazione Ires dal 27,5 per cento al 24 per cento. Così come sono benvenute le scelte di detassazione degli investimenti in macchinari (con il meccanismo del super-ammortamento).

Va promossa una nuova stagione di investimenti privati e pubblici nel miglioramento delle infrastrutture di trasporto e di comunicazione, a cominciare dalla banda larga. Un’attenzione particolare va riservata al ridisegno della legislazione su marchi e brevetti, così come è da sempre auspicata una riforma della giustizia che assicuri nel nostro paese maggiore certezza del diritto.

Infine, la rivoluzione più grande è quella che possono e debbono realizzare gli imprenditori stessi, senza chiedere nulla a nessuno. È la rivoluzione delle idee e della concretezza, la costante ricerca dell’innovazione e della migliore qualità, possibile solo attraverso l’impegno quotidiano, la collaborazione tra imprenditori e lavoratori, la preferenza per gli investimenti di medio-lungo periodo e non per il profitto di breve respiro.