È stato un medium artistico di pulsioni sociali antiborghesi. Più che 'credere' nelle utopie che propagandava, le incarnava rappresentando sulla scena la felicità della rivolta e dello scherno contro il potere. Come tutti i guitti è stato la maschera dello stato di coscienza e dell’inconscio emotivo del mondo a cui sentiva di appartenere.

Linguiti TV

Popolo del miracolo/ Miracolo economico/ O popolo che volendolo/ Puoi far
quel che ti par
Hai libertà di transito/ Hai libertà di canto/ Di canto e controcanto/ Di petto ed in falsetto
Chi canta è un uomo libero/ da qualsivoglia ragionamento/ Chi canta è già contento/ di quello che non ha
(…)
Su cantiam, su cantiam/ Evitiamo di pensar/ Per non polemizzar/ Mettiamoci a ballar/ Su cantiam, su cantiam/ Evitiamo di pensar/ Per non polemizzar/ Mettiamoci a ballar
Facciam cantare gli orfani/ Le vedove che piangono/ E quelli che dimostrano [E gli operai in sciopero ]/ Lasciamoli cantare/ Facciam cantare gli esuli/ Quelli che passano le frontiere/ Assieme agli emigranti/ Che fanno i minator.

Ecco, questa è la sigla dell’arcinota Canzonissima del 1962. Nell’anno della progettazione del primo governo di centro-sinistra organico del dicembre ’63 – dopo i governi Segni e Tambroni e il centro-sinistra "disorganico" di Fanfani. Sigla cantata e musicata da Dario Fo e scritta da uno straordinario paroliere, Leo Chiosso, quello, tra gli altri, di Fred Buscaglione.

Fu la Canzonissima che decretò la cacciata di Fo e Franca Rame dalla Rai. Si erano messi in testa di fare satira nello spazio televisivo dedicato alla lenizione dello spirito ed al buonumore familiare piccolo, medio, alto e comunque felicemente borghese e governativo. Ma solo apparentemente. E Fo lo sa, o meglio, lo sente.

Chi era Dario Fo? È quello che ha scritto che Dio è nero. Che non siamo nati bianchi nell'Eufrate, come insegna il creazionismo. Siamo nati in piena Africa: Adamo ed Eva erano neri. E anche il loro padre, Dio, era nero. È quello che intitolerà un suo libro “L’osceno è sacro”, un viaggio alla scoperta dello “scurrile poetico”.

Quest’uomo, la sua maschera, la sua ironia, il suo senso del grottesco, e tanto altro, insieme a sua moglie Franca Rame, è stato, sono stati, un riferimento prima dell’immaginario infantile e poi, salendo di età, della formazione poetica, politica, e così via, di una bella fetta del Paese. Bellissimi ricordi, per quanto mi riguarda.

Ma il punto è un altro. Un articolo per parlare dei meriti di un grande che se ne va è un articolo inutile. Bisognerebbe dare un “senso” alla sua memoria. Ecco. Si potrebbe “usare” Dario Fo per circoscrivere un concetto. È quello dell’artista o dell’intellettuale “analogico” – e ovviamente artista ed intellettuale non sono né sinonimi, né correlativi, almeno non necessariamente.

Per una sorta di inerzia dell’agenda mentale giornalistica, quando un personaggio pubblico se ne va, chiunque esso sia, a livello narrativo si tende a perdere la complessità della sua esistenza – che in quanto esistenza è fatta di non coerenze, di contraddizioni, di aporie, di irrisolvibilità – e si tende a coniugare la memoria di un uomo in una sua riduzione temporale.

Gli editoriali si sforzano spesso di “legare” il percorso narrativo del personaggio ad un frammento o frammentone che potremmo definire di cronaca. In poche parole un qualche elemento della sua vita, spesso recente perché di facile memoria giornalistica e sociale, finisce per diventare lo stigma, l’epitaffio immaginifico della sua vita. Muore Chinaglia, e più che della sua carriera si scrive della maldestra e forse losca cordata alla quale si prestò come potenziale presidente della Lazio. Muore Andreotti e tutta la sua storia politica, il romanzo politico italiano del dopoguerra, complesso e impegnativo da raccontare, certo inquietante ma certo monumentale, viene risolta nella cronaca di un processo per mafia. Gli editoriali post mortem hanno memoria ridotta e instabile perché le penne non sono penne, ma tastiere.

Dario Fo. Muore. Lo si ricorda. E di cosa si parla …? Del Movimento 5 stelle. Certo. Si è liberi di ridurre a piacimento. Si può scrivere un romanzo su di una fantastica serata semplicemente raccontando la lunga minzione che il protagonista farà prima di andare a dormire. Questo potrebbe fare un buon romanziere. E allora, visto che è un mantra, parliamo di Fo e Grillo. Proviamo a dargli un senso.

Su L’Avvenire dell’8 settembre 2016 troviamo un'intervista di Fo che interrogato sullo sconcerto per l'infinita serie di errori e di gaffe dentro il M5S dice: “Per anni si è accettato dagli altri partiti ogni sorta di malaffare e di trucchi, ogni giorno assistiamo a quanto messo in campo da una sinistra che non è altro che una destra mascherata da progressista. Al confronto, gli sbagli di M5S sono roba da ridere... È assurdo che la stessa gente che ha creato lo sterco a Roma stia ora a fare le pulci a questi ragazzi. Fossimo a teatro, saremmo nella farsa, nel grottesco." Negando di essere troppo assolutorio aggiunge: "Il programma che propone il Movimento in fondo è un’utopia. Lasciamo il tempo di far maturare qualcosa. La storia è tutta un succedersi di utopie, dall’antica Atene in poi. La stessa democrazia fra gli uomini lo è, se vediamo la realtà quotidiana, eppure esiste”.

Ebbene sì. Fo credeva nelle utopie. È facile credere nelle utopie. È un toccasana per la coscienza. Beato chi ci riesce. Tuttavia, la vis di quest’uomo non era quella di “credere” in un qualche determinato teorema. Ma di essere la diretta “espressione”, l’emersione, di un teorema culturale, a tratti pre-culturale: quello, appunto, dell’intellettuale o artista analogico.

Era un clown, o meglio un guitto. Un clown o un guitto sono maschere di uno stato della coscienza e dell’inconscio emotivo di una società. Che si esprime attraverso di essi, mediante essi, per transfert, per emersione. Il clown e il guitto sono declinazioni di latenze che hanno necessità di voce. Giuste o sbagliate che siano, ma mai false, sempre vere, come l’alto e il basso, o come il diamante o la merda - entrambi fatti di carbonio.

Queste latenze non sono regolate da coerenze, ma da urgenze. Urgenze sociali degli anni sessanta, settanta, Fo e Rame le hanno incarnate e concarnate. A tratti in modo esplicito, a tratti per metafora. Istanze di sovversione. Carnevale teatrale catartico che guardava il mondo all’incontrario, che rinominava signore il plebeo e miseramente umano il cardinale. Chi guarda il mondo a testa in giù, all’incontrario, come faceva Fo, lo ribalta e ne assume le recondite verità. Gli dà voce. Ecco cosa fa l’intellettuale o l’artista analogico: sono analogici alle pulsioni sociali, diventano incarnati di esse. Sono agiti da esse. Espressione a tratti organizzata, ma a tratti caotica, entropica e disomogenea, esattamente quali sono le pulsioni sociali.

In fondo l’unica sintesi piena della figura di Dario Fo la si trova on line, sul suo sito. DarioFo.it:
Il nostro Paese e il mondo intero perdono oggi un artista che per tutta la vita si è battuto contro l’affermazione secondo cui “la cultura dominante è quella della classe dominante”. Attraverso la sua intera opera Dario Fo ha lavorato affinché le classi sociali che da secoli erano state costrette nell’ignoranza prendessero coscienza del fatto che è il popolo a essere depositario delle radici della propria cultura.

Per questo suo impegno nel 1997 gli è stato conferito il Premio Nobel per la Letteratura “perché, seguendo la tradizione dei giullari medioevali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”.
(…)
Dario Fo non ha mai avuto bisogno dell’etichetta di “intellettuale”, perché l’idea di cultura per la quale si è battuto non è né accademica né elitaria. I suoi lavori nascono dalla cultura popolare per essere restituiti al popolo.

È vero: è un po’ enfatica, un po’ da Grande Guerra. Chi l’avrà scritta? Ma coglie nel segno. Fo, il rabdomante dello spirito del tempo. Sentiva di dar voce alle viscere dell’Italia grillina, che proteiforme e monotematica esiste da sempre, che può far paura, che fa paura, che è un fiume carsico che ha attraversato tutto il nostro novecento, talvolta in modo tragico. Ma che è lì. In molti l’avevano rimossa. Ma il rimosso poi torna su, estrusivo e potente, apocalittico, tra odore di morte e promessa di rinascita. Fo questa Italia non poteva non vederla. Non poteva non sentirla. Era analogico alle pulsioni, perché questa era la sua natura.