Le recenti difficoltà attraversate dal colosso tedesco Deutsche Bank, messe da parte le manifestazioni italiche di Schädenfreude, dovrebbero farci riflettere sulle prospettive dell’intero sistema bancario e in particolare sul nodo della redditività.

Famularo DeutscheBank

Diciamola tutta: ai tifosi italioti non è parso vero di potersi prendere una marginale rivincita sui perfidi e austeri teutonici. La Germania, che da sempre si è mostrata critica nei confronti dell’assenza di rigore nel nostro paese - soprattutto in tema di finanza pubblica, ma anche con riferimento alle debolezze degli istituti di credito nostrani - ha visto uno dei più rilevanti tra i suoi campioni nazionali (Deutsche Bank significa letteralmente “banca tedesca”) attraversare un periodo di seria difficoltà.

La storia comincia nell’ottobre dello scorso anno, quando il nuovo co-amministratore delegato John Cryan vara un programma di ristrutturazione chiamato “Strategy 2020”, con la sospensione dei dividendi sulle azioni ordinarie, forti riduzioni nel personale e graduale uscita da 10 paesi. A metà di quest’anno, Standard and Poor’s rivede al ribasso l’outlook a causa delle sfide che il management dovrà affrontare nel portare avanti il piano di rilancio, pur confermando il rating "BBB+/A-2". Nello stesso periodo, il ramo americano dell’istituto non riesce a superare gli stress test della Federal Reserve, mentre la casa madre supera di poco l’analoga verifica curata dalla Banca Centrale Europea.

In agosto, il continuo declinare delle quotazioni dell’istituto porta all’esclusione di quest’ultimo dall’indice STOXX Europe 50 a causa della ridotta capitalizzazione. Il culmine arriva alla fine del mese di settembre, quando viene raggiunto un minimo storico, su un orizzonte più che trentennale, a fronte della diffusione di un report di Bloomberg in base al quale circa 10 hedge fund avrebbero scelto di non usare più Deutsche Bank come broker e avrebbero spostato i loro portafogli di derivati presso altri istituti.

Il colpo di grazia è stato probabilmente rappresentato dalla richiesta, da parte del dipartimento di giustizia degli Stati Uniti, della cifra monstre di 14 miliardi di dollari per definire le controversie inerenti le probabili irregolarità nel collocamento di RMBS (Residential Mortgage Backed Securities) nella fase precedente la crisi finanziaria culminata con il fallimento di Lehman Brothers. Per rendere l’idea, il totale dei fondi accantonati per questa tipologia di controversie dall’istituto ammonta a circa 6 miliardi di dollari.

Di rilievo minore per i mercati, ma finanche più sensibile per la reputazione dell’istituto, sarebbe poi l’indiscrezione, riportata dal Financial Times, in base alla quale ci sarebbe stato un trattamento di favore nel corso degli ultimi Stress Test condotti dalla Banca Centrale Europea: si tratta dell’esercizio condotto per valutare la solidità degli istituti europei e la sede nella quale è stato ufficialmente bocciato il Monte dei Paschi di Siena, con conseguente necessità di forte accelerazione sull’avvio di un piano di rilancio eccezionale di cui ad oggi non sono ancora del tutto chiari i termini definitivi.

Sebbene fosse stata individuata nel 31 dicembre 2015 la data di cut off per tenere conto delle operazioni straordinarie di cessione nella verifica del 2016, alla banca tedesca è stato consentito di conteggiare una dismissione da 4 miliardi di dollari in partecipazioni di Hua Xia, un istituto di credito cinese, operazione non ancora perfezionata e con chiusura prevista entro l’anno. La disparità di trattamento è stata fermamente negata dalla BCE e da ultima da parte di Danièle Nouy, presidente del Supervisory Board, a margine di una conferenza tenutasi alla Bocconi. L’impatto di questa operazione avrebbe fatto scendere, nell’ipotesi di scenario particolarmente avverso, l’indicatore common equity tier one ratio da 7,8 a 7,4%, un livello comunque superiore ai minimi regolamentari (e sopra Commerzbank, Barclays e Unicredit), ma di certo meno spendibile per difendere la solidità dell’istituto.

Un parziale sollievo è arrivato nella seconda metà di ottobre, quando l’istituto ha annunciato che assisterà British American Tobacco PLC nell’acquisizione da 47 miliardi di dollari di Reynolds American.

Se consideriamo che nel giugno di quest’anno un report del Fondo Monetario Internazionale qualificava DB come il più importante contributore netto di rischio sistemico nell’ambito del sistema bancario globale, dovremmo accantonare del tutto qualunque velleità inerente il “mal comune mezzo gaudio” e cercare di valutare quanto dovrebbe preoccuparci la situazione dell’istituto tedesco.

È abbastanza plausibile che l’accordo con il dipartimento di giustizia si ottenga su livelli ben più bassi di quelli indicati nella richiesta iniziale (forse nell’ordine di grandezza di un terzo e quindi entro una dimensione compatibile con le riserve attuali dell’istituto) e in ogni caso è assolutamente certo che la Germania si adopererà per fare tutto quanto è necessario al fine di evitare il collasso della “banca tedesca” per antonomasia; tutto questo lasciando da parte la basilare considerazione che nessun governo o banca centrale ha interesse a sperimentare il dissesto dell’istituto che più contribuisce al rischio del sistema finanziario globale.

Un lucido editoriale dell’Economist, intitolato “Autumn blues”, partendo dall’analisi dei problemi di DB, punta il dito su un’area di attenzione comune anche ad altri istituti: la redditività. La divisione di investment banking, che in passato era la punta di diamante dell’istituto, è in fase di ridimensionamento, mentre sul versante retail in patria Deutsche Bank deve vedersela con oltre 1700 piccoli istituti di natura pubblica; il suo concorrente più grande, Commerzbank, sta tagliando 9600 posti di lavoro.

Oltre alla bassa crescita dei principali paesi europei, i tassi d’interesse negativi e la curva dei rendimenti piatta hanno contribuito a erodere in modo fatale la profittabilità, specialmente in quei paesi, come l’Italia e la Germania, dove le banche commerciali hanno sempre fatto affidamento sul differenziale tra tassi attivi e passivi. Diverso il discorso in Svizzera e in Svezia dove la dipendenza dallo spread tra tassi attivi e passivi è minore e il cost-income ratio meno penalizzante (in media 46% in Svezia contro 72% in Germania e 67% in Italia). Anche in realtà come la Spagna, dove pure è stato fatto molto per rilanciare il sistema bancario (dopo i salvataggi del 2012 il tasso di credito non performing è sceso di oltre 4 punti percentuali e gli sportelli sono stati ridotti di un terzo), nonostante una crescita del PIL al 3,2, la redditività dei principali istituti stenta a decollare proprio a causa dell’eccessiva dipendenza dal margine d’interesse.

Provando a tirare le fila, sulla base delle informazioni disponibili ad oggi è alquanto improbabile che Deutsche Bank sia la nuova Lehman Brothers: si tratta di un istituto che sta affrontando una complessa e articolata fase di ristrutturazione e consolidamento, che include passaggi non privi di criticità quali definire la controversia con il dipartimento di giustizia USA e probabilmente, al netto delle operazioni straordinarie di dismissione, portare a termine un aumento di capitale. Se non bastasse la constatazione che l’istituto ha ragionevoli possibilità di completare il processo con le proprie forze, resta vero che può contare sul sostegno della repubblica federale tedesca e, indirettamente, su quello di tutte le istituzioni interessate alla stabilità del sistema finanziario globale.

Ma la sfida più grande, che non solo il colosso tedesco dovrà affrontare, riguarda un radicale ripensamento del modello di business verso una configurazione che, riguardo al contesto presente, sia in grado di conseguire profitti anche in un mondo con bassa crescita e tassi negativi e, in prospettiva, riesca a tenere testa alla concorrenza che arriva dal mondo Fintech, dove le strutture di peer-to-peer-lending e le tecnologie come il blockchain e i big data potrebbero avere sul sistema finanziario un impatto non troppo diverso da quello che ebbero la macchina a vapore, l’elettricità e il petrolio e infine elettronica e informatica nelle prime tre rivoluzioni industriali conosciute.