ingranaggi

La narrativa governativa e antigovernativa recente, dedicata agli effetti del Jobs Act sull’occupazione, inevitabilmente focalizza l’attenzione dei media, e pagine e pagine sono scritte per narrare i fasti o le tragedie che si sarebbero succedute alla riforma della disciplina contrattuale del lavoro.

La realtà è che l’aumento del tasso di occupazione, come mostrato dal grafico 1, non permette alcun trionfalismo. Si ascrive al massimo al ruolo di "piccola variazione di breve termine", soprattutto se paragonate alle ferite ancora aperte dai 7 lunghi anni di recessione che ci lasciamo alle spalle.

futuro1

Grafico 1, Cambiamenti cumulati dal 2008 nel tassi di non occupazione (disoccupati + inattivi in % della popolazione di riferimento)

In questo contesto di stagnazione, sarebbe forse consigliabile concentrarsi, invece, sui più significativi cambiamenti strutturali che stanno modificando i mercati del lavoro dei paesi più sviluppati, fra i quali l’Italia dovrebbe ambire a restare. Gli ultimi lustri, infatti, sono stati caratterizzati, negli Stati Uniti come in Europa, da una polarizzazione nelle occupazioni create, ben visibile nel grafico 2. I lavori a medie competenze di routine, sostituite con l’automazione, pesano sempre meno, fino a 8 punti percentuali in meno in termini di quote relative, nell’occupazione totale, mentre professionisti, manager, e tecnici altamente specializzati, sono le figure professionali che hanno aumentato il loro peso relativo, di circa 6 punti, assieme - almeno per Stati Uniti e Giappone - a lavori a bassa qualifica, spesso concentrati nel settore dei servizi e nelle occupazioni manuali non di routine.

Inoltre, recentemente, i progressi nei campi della robotica, del machine learning, dei BigData, fanno prospettare un impatto negativo anche per occupazioni solitamente ritenute protette dalla “concorrenza” della tecnologia, come avvocati, analisti dati, medici. Non esiste giorno in cui qualche guru tecnologico non prospetti cambiamenti epocali nel mondo in cui il lavoro è organizzato, per mezzo delle nuove tecnologie. Assisteremo a una disoccupazione strutturale “tecnologica”? Robots, macchine e piattaforme digitali spingeranno la classe media a un futuro di povertà e lavori discontinui?

Per parlare di questo, assieme alle risposte o agli impatti che questi trend avranno sulle politiche economiche, l’Ocse ha organizzato The Future Of Work, un forum con più di 400 partecipanti, e 4 panel di alto livello, un evento connesso al meeting dei Ministri del Lavoro dei paesi Membri, tenutosi Giovedì e Venerdì della scorsa settimana.

futuro2

Grafico 2, Cambiamenti nella domanda di lavoro per gruppi di competenze

Il panel di apertura era composto da grandi economisti quali Philippe Aghion (Harvard University) e Eli Noam (Columbia University), da businessman nei settori high-tech come Giuseppe Recchi, Chairman di Telecom Italia, o nel settore emergente della sharing economy come David Plouffe, già consigliere stretto di Obama ora a Uber come Vice Presidente, e Guy Ryder, direttore generale dell’ILO.

Il messaggio principale, ben delineato da Aghion, è che la storia passata ha mostrato come le paure dei luddisti fossero infondate. La tecnologia si è mostrata amica del lavoro, ha aumentato i salari reali e la qualità del lavoro svolto. Il fatto che la transizione all’epoca del digitale abbia comportato trend diversi, con il lavoro della classe media sotto la costante pressione delle nuove competenze, non significa né che tali aggiustamenti continueranno al passo osservato, né che la disoccupazione di massa tecnologica sia una prospettiva futura plausibile. Nell’eterna macchina motrice di distruzione e creazione di nuovi business e posti di lavoro, la tecnologia ha di solito permeato e arricchito i nuovi lavori creati a scapito di quelli vecchi distrutti, non più utili perché troppo costosi o poco produttivi. Le politiche pubbliche, in siffatta situazione, sono spesso intese come reazioni a dinamiche sfavorevoli, quando per Aghion le forze che spingono al progresso tecnico sono le stesse che spingono al progresso sociale e delle politiche pubbliche, che sotto stress sapranno riformarsi ispirandosi alle domande provenienti dalla società.

Messaggi positivi sono arrivati anche da Plouffe, che ha ricordato come la domanda di trasporto a basso costo sia alla base dell’attuale aumento di servizi simili a Uber, piattaforme tecnologiche che ottimizzano la gestione dei picchi di domanda, dei tragitti, tramite l’uso sapiente dei dati, permettendo di far incontrare domanda e offerta in modo più efficiente. La tecnica perciò, colmerebbe una domanda non soddisfatta di consumo, spesso servita da offerte iper regolate e non avvezze alla competizione. A chi poneva obiezioni sul grado di sicurezza di un lavoro marginale come quelli di piattaforme di sharing economy, in termini di salari, Plouffe ha obiettato che il 40% degli autisti di Uber in Francia erano disoccupati di lungo periodo. Il lavoro discontinuo e irregolare permetterebbe, perciò, loro un rientro nel mercato del lavoro, che nessuna agenzia pubblica ha saputo loro donare.

Pur non fugando tutti i dubbi dei presenti, fra cui il Segretario dell’ILO, che ha ricordato come un salario discontinuo proveniente da lavori prestati su piattaforme digitali non possa essere considerato un modello di sistema sociale “sviluppato”, quando sembra assomigliare più a mercati del lavoro di paesi emergenti (la cosiddetta “indianizzazione" dei servizi), l’intervento di Plouffe ha chiarito uno dei problemi dei moderni sistemi di welfare dei paesi sviluppati: la scarsa reattività a domande di competenze che cambiano velocemente. È storia comune che i migliori sistemi di placement pubblico, i migliori sistemi di attivazione dei disoccupati e inattivi, si basino su programmi personalizzati che valutino le divergenze esistenti fra competenze del disoccupato e domanda proveniente dal mercato del lavoro. È spesso nozione comune che il piano si basi su formazione specifica, in grado di rivalutare il capitale umano eroso da nuove tecnologie e nuovi modelli organizzativi. La realtà spesso non sta alla pari delle enormi potenzialità di utilizzo e analisi dei dati, lo stesso trend che si cercherebbe di contrastare con la politica pubblica di re-inserzione.

Chi scrive è dell’opinione che partnership pubbliche-private che utilizzino, per citare solo un esempio, le potenzialità analitiche dei BigData, in modo efficiente, come oggi possibile date le nuove tecnologie dell’Informazione, siano preferibili alla stasi con cui i governi, un po’in ordine sparso in quanto a reattività, si stanno attrezzando per il futuro. Certo, ammettere che il ciclo politico sia sempre di più in una situazione di rincorsa, nei confronti di cambiamenti repentini nelle tecnologie, nelle reti di saperi e competenze, significherebbe anche ammettere che senza innovazione politica e organizzativa, le nostre amministrazioni finiranno inevitabilmente per assomigliare a pachidermi in un mondo di macchine volanti auto-comandate. Una profonda revisione del modello di supporto al lavoro, come del modo in cui insegniamo, lungo tutto l’arco di vita, conoscenze e formiamo competenze, è certamente necessaria.

Restiamo dell’opinione che la tecnologia aiuterà la transizione, e l’innovazione delle policy sarà conseguenza generalizzata di questi trend. Ciò che, però, è necessario ricordare è che chi anticipa le tempeste, guida le navi in porti sicuri. Chi si attarda, arranca su un percorso di arretratezza che si auto-alimenta. Spezzare il circolo vizioso è quanto mai urgente, anche nella sonnacchiosa Italia.