Disoccupazione: i dati che non hanno ancora fatto pace con il governo
Innovazione e mercato
Le statistiche ufficiali sulla disoccupazione, pubblicate il primo settembre scorso, hanno fatto tirare un sospiro di sollievo al governo: i dati ISTAT, che sono stati a lungo una spina nel fianco dell'esecutivo, paiono improvvisamente essergli venuti in soccorso. Il tasso di disoccupazione a luglio è sceso al 12 per cento dal 12,5 per cento di giugno. Rispetto a luglio 2014 si registra una riduzione di 0,9 punti percentuali. Niente male, a prima vista. E poi, era quello che ci voleva, dopo il pasticcio del ministero del lavoro sui dati delle attivazioni e cessazioni contrattuali.
Il ministero, come noto, non soddisfatto dai dati ufficiali ISTAT e impaziente di mostrare i magici effetti (presunti) del jobs act e dello sgravio contributivo, da diversi mesi si serve dei dati amministrativi sulle comunicazioni obbligatorie, spacciandoli di fatto come indicatori congiunturali del mercato del lavoro. Un utilizzo che anche molti esperti hanno definito inappropriato.
Oggi si utilizzano numeri a destra e a manca senza farsi troppi scrupoli, nel tentativo di mostrare tutto e il contrario di tutto. Non stupisce, perciò, che anche il ministero abbia utilizzato i propri. Però era legittimo attendersi maggiori avvertenze a cautele da parte di una istituzione e, soprattutto, che alla fine almeno tornassero i conti. Invece, a un certo punto, qualcuno si è accorto che nei numeri del ministero, al di là dell'appropriatezza e della qualità del dato, qualche cosa non andava. In altri termini, che i conti non tornavano affatto.
Per farla breve, i contratti di lavoro a tempo indeterminato attivati nei primi sette mesi dell'anno non sono gli oltre 630 mila comunicati dal ministero, ma ben 300 mila in meno. Se ai 330 mila contratti veri, poi, si sottraggono le trasformazioni di contratti a termine già esistenti, operazione necessaria se si vuole avere una indicazione coerente con l'andamento effettivo dell'occupazione, il numero si riduce a circa 120 mila. Lo stesso ministero ha ammesso l'errore.
Si è trattato chiaramente di un banale errore di calcolo, cose che capitano a tutti. Il famoso foglio excel di Reinhart e Rogoff la dice lunga a riguardo. Il ministero non ha certo “taroccato” i dati volutamente, ma la magra figura, purtroppo, è stata inevitabile. E nessuno avrebbe impedito ai più maligni di speculare sulla gaffe del ministero, se il primo settembre non fosse arrivato proprio il comunicato ufficiale dell'ISTAT ad attirare l'attenzione con nuovi dati positivi sulla disoccupazione.
È pace fatta, dunque, tra le statistiche ufficiali e il ministero del lavoro? È ancora presto per dirlo. Non è sempre tutto oro quello che luccica e, prima di brindare, forse è il caso di dare un'occhiata ai numeri dell'ISTAT per vedere di cosa parlano veramente.
I media, come al solito, hanno dato una lettura parziale dei dati ufficiali, enfatizzando i numeri favorevoli e trascurando quelli che non si prestano a una interpretazione abbastanza ottimista. Si sono concentrati sul dato mensile, senza preoccuparsi di guardare il dato trimestrale destagionalizzato. Quest'ultimo da solo sarebbe bastato a raffreddare i facili entusiasmi. Nel secondo trimestre 2015, infatti, il tasso di disoccupazione è aumentato dello 0,1 per cento rispetto al primo trimestre, e si è ridotto di appena 0,1 punti rispetto al secondo trimestre del 2014. Niente a che vedere, perciò, con il roboante dato mensile.
A parziale discolpa dei media va detto che il primo settembre scorso l'ISTAT ha pubblicato il dato trimestrale grezzo e non quello destagionalizzato, come invece fa di solito, e quindi, il dato trimestrale destagionalizzato avrebbero dovuto cercarselo da soli nel database online. Questo, mi rendo conto, forse è chiedere troppo. Perché l'istituto di statistica, poi, abbia pubblicato il dato grezzo e non direttamente quello destagionalizzato, non è chiaro.
In secondo luogo, nel dettaglio, anche il dato mensile presenta luci e ombre. A luglio ci sono 143 mila disoccupati ufficiali in meno. Questo è vero. Ma nel contempo gli inattivi sono aumentati di ben 99 mila unità. Gli occupati in più sono soltanto 44 mila. In breve, quasi 100 mila disoccupati non vengono più conteggiati ufficialmente come tali perché sono diventati inattivi. Ma rimangono pur sempre disoccupati. Anzi, disoccupati e magari anche scoraggiati. Se stanno così le cose, sarebbe più corretto parlare di imboscamento dei disoccupati e non di riduzione della disoccupazione.
In terzo luogo, che dire della riduzione di 0,9 punti percentuali rispetto a un anno fa? Il numero fa un certo effetto, non c'è dubbio. Tuttavia, si dovrebbe tenere anche conto che di questo passo, per dimezzare il tasso di disoccupazione e farlo tornare al 6 per cento pre-crisi, ci vorranno altri 7 anni. Praticamente quel che resta della legislatura corrente più tutta la prossima. E non c'è da stare allegri visto che, secondo Eurostat, nella classifica europea siamo ancora il sesto peggiore paese per quanto riguarda il tasso di disoccupazione. Davanti a noi soltanto la Grecia (25%), la Spagna (22,2%), Cipro (16,3%), Croazia (15,1%) e Portogallo (12,1%).
Per finire, due parole sul ruolo dello sgravio contributivo. Non si può escludere che l'andamento moderatamente positivo dell'occupazione vada attribuito in gran parte proprio allo sgravio contributivo varato con la legge di stabilità 2015. Per i fortunati che sono riusciti ad accaparrarselo, il risparmio contributivo è di oltre 8 mila euro all'anno per ogni nuovo occupato a tempo indeterminato. L'intervento è costato alle casse pubbliche ben oltre 3 miliardi di euro, uno per ciascun anno dal 2015 al 2017. Una cifra notevole, ma che in fin dei conti basta per poco più di 124 mila occupati, e dura solo tre anni. Ora, sarà pure un caso, però, nei primi sette mesi del 2015 il numero degli occupati è cresciuto proprio di 124 mila unità. Che poi è all'incirca il numero di nuovi posti fissi, al netto delle trasformazioni da vecchi contratti a tempo determinato, risultante dai numeri corretti del ministero. È solo una coincidenza? Cioè, solo per caso il numero dei nuovi occupati coincide con il numero massimo delle assunzioni con sgravio contributivo?
Speriamo, perché se malauguratamente non fosse una coincidenza, vorrebbe dire che il sussidio erogato dal governo ha esaurito il suo effetto. E che in assenza di una vera ripresa dell'economia, l'occupazione da adesso in poi tornerà a stagnare. A meno che il governo non decida di spenderci su altri miliardi. Tuttavia, spendere altre risorse servirebbe solo a sussidiare posti di lavoro che alla fine del triennio, senza più lo sgravio contributivo e senza una vera ripresa, svanirebbero nel nulla dall'oggi al domani. Perché, parliamoci chiaro, dopo il jobs act i nuovi contratti a tempo indeterminato non sono più “posti fissi”. Di fatto sono diventati contratti a tempo determinato.
Insomma, i dati ISTAT celebrati la settimana scorsa, in realtà, sono fatti di luci e ombre. E le prospettive dell'occupazione non appaiono ancora così rosee come qualcuno vorrebbe far credere. Ho dato una lettura un po' troppo pessimistica dei dati ISTAT sulla disoccupazione? Forse, ma d'altro canto, oggi tutti usano i numeri senza farsi troppi scrupoli, anche il ministero lo fa. Quindi abbiate pazienza se, per una volta, l'ho fatto anche io.