bandiera Ue grande

Nei miei ricordi cinematografici giovanili vi è un treno, che percorre le pianure dell’India stracolmo di viaggiatori assiepati persino sul tetto delle carrozze ed avvolti dal fumo che proviene dalla locomotiva, quando ad un tratto i macchinisti frenano bruscamente gettando il caos tra i passeggeri. Sui binari è sdraiata in pieno sole una vacca che si gode la sua sacralità. Mario Draghi è più giovane di me e non lo conosco abbastanza per sapere, se da ragazzo, frequentava i cinema come chi scrive. Di certo, si sarebbe ricordato quella scena nei giorni di forzata attesa, nel buen rétiro di Città della Pieve, degli esiti della consultazione promossa (che dovrebbe partire in queste ore dopo un primo rinvio) da un’importante forza politica della sua maggioranza.

Immaginiamo che gli sia capitato, nelle riunioni del board della BCE, di dover attendere che un componente si riservasse di sentire il suo Governo prima di condividere una decisione riguardante la stabilità monetaria dell’Eurozona. La storia della piattaforma Rousseau, tuttavia, gli deve essere sembrata stravagante. Un vignettista d’antan, Makkox su Il Foglio, ha disegnato la caricatura di Draghi il quale, quando i grillini gli dicono che prima di votare la fiducia devono sentire Rousseau, si rivolge ad un collaboratore e gli chiede se questi si accingono a fare una seduta spiritica. Ogni giorno ha la sua pena. Vedremo stasera l’esito della consultazione del M5S e se la promessa del Super-Dicastero sulla transizione ecologica basterà a convincere la base grillina. Intanto Matteo Salvini ha trovato una via “entrista” per il sovranismo: sarà più europeo per difendere meglio gli interessi nazionali. Quanto meno si è accorto che le decisioni vere, quelle che contano, si prendono a Bruxelles. Si vede che ha fatto tesoro dell’esperienza del Conte 1 quando i pifferi giallo-verdi andarono per suonare e furono suonati.

Chi non ricorda le pernacchie a Pierre Moscovici, accusato di voler reprimere le nostre ‘’esigenze vitali’’ pur essendo ormai, con le valige in mano, pronto a lasciar libero lo studio ad Alberto Bagnai? Poi quando il ‘’burocrate’’ non eletto armò, come se niente fosse, il bazooka della procedura d’infrazione per debito eccessivo, toccò a Conte e a Tria negoziare la resa. Ora, anche se la gente non si affaccia più, alle 18, alle finestre e sui balconi esibendosi negli scongiuri un po’ patetici dell’andrà tutto bene, è veramente auspicabile che il governo di Mario Draghi arrivi in porto a vele spiegate. Per tanti motivi. Innanzi tutto per il prestigio, la competenza dell’autorevolezza della persona. Il che non è solo una questione di galateo, di buone maniere e di importanti relazioni. Ma anche una ben più concreta questione di moneta, proprio di quella che entra, anziché uscire, nelle tasche dei risparmiatori.

Basta osservare il buon andamento dei mercati e il crollo dello spread. Sul piano politico, l’Italia, con Draghi a Palazzo Chigi, è destinata a collocarsi all’avanguardia della causa europeista. SuperMario (la notizia è riservata) è figlio naturale di Europa, la fanciulla di cui Zeus s’invaghì, al punto di assumere le sembianze di un toro e di rapirla. È il vendicatore delle élites, vilipese e messe da parte come detentrici di un potere non legittimato dal voto e interpreti di politiche che pretendono di parlare all’intelletto dei cittadini e non al loro cuore o, meglio, alla loro pancia. Draghi non ha dietro di sé un partito, non ha un potere economico personale, non possiede giornali né televisioni. Dispone però di una risorsa che questo Paese ha esaurito da tempo: un pensiero, una visione.

È un novello Astolfo incaricato dal Quirinale di recarsi sulla luna (ove si raccolgono tutte le cose che si perdono sulla terra) a recuperare il senno perduto da un’intera nazione, il 4 marzo del 2018. Per quanto mi riguarda – da ostinato avversario di Matteo Salvini – osservo con interesse la sua conversione. È troppo improvvisa e strumentale? In politica contano i fatti. Sarebbe, perciò, già un risultato positivo se il leader della Lega si fosse reso conto che per arrivare a Palazzo Chigi deve ‘’andare a messa’’ a Bruxelles. In questi ultimi mesi l’impegno politico prioritario, garantito tramite l’indecisionismo e l’immobilismo, è stato quello di non consegnare, attraverso le elezioni anticipate, quei ‘’poteri assoluti’’ che Salvini si era giocato da solo e di impedire ad una nuova maggioranza parlamentare sovranista la possibilità di conquistare quella roccaforte – la presidenza della Repubblica – che ha resistito spesso in grande solitudine all’offensiva dei ‘’barbari’’.

L’inadeguatezza del Conte II veniva giustificata e tollerata dal rischio di spalancare le porte della cittadella ad un centro destra a direzione sovranista, antieuropea, egemonizzato da Matteo Salvini. In sostanza, si era ricostituita in Italia – peraltro, senza riuscire a realizzarla – quella conventio ad excludendum che aveva imbalsamato la Prima Repubblica. Un centro destra che diventa una coalizione ‘’normalizzata’’, coerente coi valori di fondo (le scelte tattiche vanno e vengono) tradizionali dell’Italia, spurgata della sua ala estrema, costituirebbe un rafforzamento del sistema politico. Matteo Salvini sembrerebbe aver compreso che un grande Paese fondatore dell’Unione europea non può cadere in mano ad un governo di indirizzo nazionalista-sovranista. L’Europa non avrebbe potuto sovvenzionare i suoi nemici (sempre che non fossero loro a rinunciare al NGEU).

Il 20 marzo del 1948, un mese prima delle elezioni che segnarono il destino dell’Italia, George Marshall, il segretario di Stato Usa che promosse l’European Recovery Plan https://it.wikipedia.org/wiki/Piano_Marshall, non ebbe ritegno a dichiarare ciò che era ovvio e ragionevole; e cioè che un voto del popolo italiano a favore di una maggioranza del Fronte popolare filo-sovietico sarebbe stato considerato come la rinuncia al programma di assistenza americano.