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Quello che stupisce di più, quando si sente parlare dei ritardi del PNRR italiano, è il modo in cui è inquadrata la questione, dall’ultimo dei giornali locali fino alla massima carica dello Stato: sarebbe come se mettessimo una cornice intorno a un particolare della Cappella Sistina, e ci dimenticassimo che tutto intorno a quel punto c’è molto altro da guardare per capire quello che stiamo vedendo.

Nessuno, infatti, pare ricordare bene come è nato e perché il Next Generation EU, di cui i PNRR costituiscono la declinazione negli Stati membri; soprattutto, nessuno vuole tirare fuori dall’armadio i vested interests di chi ha voluto e approvato il piano, e ammettere con chiarezza quali siano stati i compromessi necessari per fargli vedere la luce.

Quando si è insediata, la Commissione di Ursula Von der Leyen aveva il problema di definire un budget pluriennale adeguato alle proprie ambizioni, soprattutto in merito alla transizione digitale e a quella ecologica: dopo l'uscita della Gran Bretagna c'erano diversi Stati che volevano addirittura ridurre i versamenti al bilancio europeo, anche a costo di sacrificare programmi come Erasmus e Horizon (fondamentali per visione e coesione).

La pandemia da Coronavirus, con le sue potenziali ripercussioni sistemiche sul mercato unico, è stata il grimaldello con cui Commissione e Parlamento sono riusciti a imporre emissioni di debito comune ad alcuni membri del Consiglio europeo, riluttanti a intervenire a sostegno degli Stati più colpiti (tra cui l'Italia del secondo governo Conte). In quella trattativa lunghissima e incerta nel luglio 2021 era evidente il particulare di ognuno degli attori.

Da un lato il Presidente del Consiglio italiano, fortemente interessato a garantirsi un risultato politico europeo insperabile (insieme a molti miliardi di fondi da gestire con logiche elettorali e di consenso interno); dalla stessa parte, Macron e la Commissione, che invece volevano ottenere un rilancio di scelte "comunitarie" forti, con il minor intralcio possibile da parte di meccanismi intergovernativi, per gestire le sfide del futuro (il digitale e l'economia verde, appunto, con le ambizioni geopolitiche sullo sfondo).

Dall'altro lato del tavolo erano schierati i governi cosiddetti "frugali", specularmente a quello italiano interessati a rimarcare (in ottica elettorale nazionale) l'indisponibilità a condividere strumenti di debito, e il Consiglio europeo, che come istituzione intergovernativa non voleva perdere il controllo sulle scelte politiche rispetto alla Commissione. Fu come sempre la Germania, schierandosi a favore della Francia e della Commissione, a fare da ago della bilancia: non tanto per convinzione, quanto per la consapevolezza che la grande industria tedesca aveva tutto da perdere da un fallimento italiano, che oltre alla supply chain del settore auto poteva far venire giù l’intero edificio europeo.

Il compromesso finale su cui si trovò la quadratura fu quello di uno strumento eccezionale, letteralmente: un’eccezione, creata una tantum, non rinnovabile (a questo era legata l’approvazione del Parlamento finlandese), con un orizzonte temporale legato esclusivamente al budget pluriennale e quindi con scadenza nel 2026: ognuno aveva tirato l'acqua al proprio mulino in quantità sufficiente a cantare vittoria, nessuno era però in grado di macinare abbastanza farina nell'interesse generale.

Perché questo è il punto che nessuno sembra proprio aver capito, del Next Generation EU e dei PNRR: gli obiettivi sono obiettivi europei, pensati anzi per la prossima generazione di cittadini europei, e come tali vanno ben al di là dei confini nazionali, dei limiti di ciascuna amministrazione nel perseguirli e del bilancio 2021-2027.

Lasciare che traguardi del genere vengano raggiunti o meno da enti di livello e di ambito inferiore a quello a cui sono destinati vuol dire esporre al rischio di fallimenti l’intera architettura. L’interesse italiano non sta (solo) nell’immettere 200 miliardi di euro nell’economia nazionale, gestendone le gare, come sembra pensare qualche politico (di destra, di sinistra e forse anche di centro) fin dall’avvio del programma; l’interesse europeo non sta (solo) nel fatto che se l’Italia riesce in questo difficilissimo impegno si può (forse) andare avanti con nuove emissioni una tantum e ad hoc nei prossimi bilanci pluriennali.

L’interesse generale, italiano ed europeo, sta nel fatto che i traguardi che ci siamo dati vengano effettivamente raggiunti: meglio se nel 2026, ma senza pensare che si rinunci a quello che non si riesce a fare entro quella data. Bisogna in qualche modo trovare un bilanciamento tra l’incapacità (conclamata da decenni) delle amministrazioni italiane di trarre pieno vantaggio dai finanziamenti e la necessità di completare gli obiettivi per gli europei di domani: un piano europeo di trasformazione intergenerazionale non può rimanere esclusivamente in mano agli Stati nazionali a livello esecutivo, e non può avere l’orizzonte temporale di un ciclo scolastico.

Se si vuole che il Next Generation EU diventi, nei libri di storia, quello che il New Deal di Roosevelt fu per gli USA novanta anni fa (il primo “discorso al caminetto” avvenne il 12 marzo 1933), servono due cose essenziali: la piena consapevolezza, a tutti i livelli, della sua portata storica, e una struttura europea di esecuzione. Fu il governo federale di Washington a implementare gli interventi di stimolo e di sostegno all’economia, non i singoli Stati con le loro amministrazioni; e lo fece con personale proprio, assunto allo scopo e rispondente ad agenzie federali, eventualmente a loro volta create ad hoc per gestire i programmi e le politiche di intervento.

A qualcuno questo potrebbe sembrare un commissariamento esterno, segno di un fallimento italiano. Non lo è: prima di tutto, perché “europeo” non vuol dire “straniero”, anzi siamo pieni di funzionari europei con passaporto italiano, dalla Commissione fino alle Agenzie europee (in Italia e negli altri Stati membri); e poi perché questo principio varrebbe in generale, anche per tutti gli altri progetti di portata transnazionale e per tutti gli altri governi.

Ovviamente, bisognerebbe che questa scelta fosse anche accompagnata da una vera democrazia sovranazionale europea, per rendere politicamente responsabile davanti al Parlamento un governo eletto a livello dell’Unione. Ma se anche non si arrivasse a questo in tempi brevi, e ammettendo ci fosse un commissariamento esterno, quale sarebbe l’alternativa più probabile? Il fallimento storico dell’unico progetto in grado di rilanciare l’integrazione dai tempi della moneta comune: settanta anni dopo la fine del progetto di una difesa comune, chi vuole assumersi questo peso nei confronti della prossima generazione europea?