Travaglio manette grande

Com’è ormai arcinoto ai più, alla festa di Articolo 1 Marco Travaglio ha dato a Mario Draghi del «figlio di papà» che «non capisce un caz*o» di qualunque cosa non sia finanza, economia ecc. ecc.; com’è ormai altrettanto noto, Draghi perse il padre all'età di quindici anni – rimase orfano anche della madre pochi anni dopo – perciò è stata la prima delle due sortite a sollevare, più della seconda, perplessità diffuse.

Eppure si tratta di una sortita da troll, cioè quel che Travaglio è sempre stato nonostante vent'anni fa abbia conquistato una patente di credibilità valida sine die in quanto antiberlusconiano radicale; in secondo luogo è stato assai facile, per Travaglio e travaglisti d’ufficio, smentire la gaffe sostenendo che l'espressione “figlio di papà” allude a uno status socio-economico più che alla figura del padre in sé: sarà di cattivo gusto dare a Bruce Wayne del “figlio di papà”, ma non è impreciso se inteso come va inteso, cioè non letteralmente (passi anche che Bruce Wayne ereditò una public company da 200 miliardi di dollari mentre i Draghi erano semplicemente benestanti – passi anche, con uno sforzo in più, che il primo è un personaggio di fantasia).

A destare perplessità dovrebbe essere, piuttosto, la seconda delle due sortite. È ridicolo sminuire le capacità e la forma mentis squisitamente politiche di un ex alto funzionario celebre per aver implementato una politica (per l'appunto…) monetaria espansiva in vista di finalità che, sia detto nel nono anniversario del celebre “whatever it takes”, eccedono i compiti di una banca centrale – cioè, essenzialmente e in tempi pre-pandemici, tenere a bada l'inflazione (valori prossimi ma inferiori al 2%, nella fattispecie), non certo salvare una moneta.

Da presidente della BCE Draghi sfidò i campioni dell’ortodossia monetaria (e cioè, in altri termini, “l’egemonia culturale” della Bundesbank) forte di una visione assai “politica” del suo ruolo e degli obbiettivi da perseguire, diventando semmai il contraltare di chi, prigioniero dei dogmi tipici del tecnocrate, paventava l’inflazione galoppante come conseguenza automatica del quantitative easing. Draghi, dunque, non ha un curriculum da tecnocrate, ma da "quasi-politico" (tale è un gran commis) che per sovrappiù politicizzò ulteriormente il suo ruolo.

Le uscite di Travaglio sono perfino più ridicole se vi si legge, fra le righe, l'elogio di Conte che – lui sì, nazionalpopulista e, senza soluzione di continuità, progressista, se non addirittura “punto di riferimento per i progressisti” (cit. Zingaretti), ieri trumpiano di ferro e oggi bideniano convinto – è la quintessenza di quel nichilismo politico-ideologico manifestatosi nel suo trasformismo, nonché, visti i frequenti svarioni, della mediocrità intellettuale.

Qualcuno, ottimisticamente, individua nel nervosismo di Travaglio un’avvisaglia della sua fine quale seguitissimo guru e tele-tribuno. Ma il conformismo – nella fattispecie il conformismo giustizialista e sgangheratamente antisistema di Travaglio e i suoi, che in un Paese con una migliore alfabetizzazione civica e politico-istituzionale faticherebbe ad attecchire perfino nei licei – il conformismo, si diceva, è duro a morire… e se anche uno dei suoi punti di riferimento cominciasse a perdere seguito e credibilità, ce ne sarebbe un altro (uno Scanzi o magari un figlio di papà…) pronto a raccogliere il testimone.