In questa pazza crisi di governo estiva (che in realtà è una crisi profonda di tutta la politica italiana, ogni anno più in difficoltà e meno in grado di risollevarsi dal baratro in cui è precipitata da tempo) c’è stato un gigantesco rumore di fondo sulle “elezioni sì o no”, accompagnato dal rumore sul “Conte-bis sì o no”, che ha impedito all’opinione pubblica di ascoltare le proposte di chi si accinge a governare l’Italia, passando o meno dalle urne. Perché è fuor di dubbio che chi si propone di fare il politico, specialmente a livello nazionale e quindi internazionale, abbia delle idee sulle cose da fare, sulle priorità e sulle modalità di affrontarle. E che se vuole conquistare il consenso degli elettori debba raccontarle, spiegarle, confrontarsi ed eventualmente convincere (o, ben più raramente, essere convinto e cambiare idea).


Quindi non ci resta che confessarlo: o chi scrive è stato assai distratto, e può darsi; oppure il sistema dell’informazione ha fatto poco per informare sui programmi e i temi di chi in queste settimane si è trovato a gestire, all’interno del Parlamento o nelle stanze dei bottoni dei partiti, quello che è avvenuto dalle dimissioni di Giuseppe Conte. “L’avvocato del popolo”, come lui stesso si era definito al momento della nomina da parte del Presidente della Repubblica alla fine di maggio dello scorso anno, ha avuto l’ardire di parlare al Senato di quello che avrebbe voluto fare con la prossima legge di bilancio: riforma fiscale, riduzione del cuneo fiscale, misure di sostegno agli investimenti e all'export, un piano di rilancio per il Sud, interventi di spending review, privatizzazioni (oltre a diversi decreti legislativi in esame in Parlamento, destinati a ridurre la burocrazia di diversi settori). E ha poi aggiunto, cito testualmente, che “c'è un gran bisogno di politica con la «P» maiuscola, che significa capacità di progettare il futuro, esprimendo ad un tempo visione prospettica ed efficacia realizzativa”. Bontà sua, se n’è accorto finalmente! 

Dopo aver fatto finta che un contratto di governo creato per giustapposizione fosse sufficiente a governare cinque anni, in tempi in cui pochi mesi sono sufficienti a stravolgere il mondo. Confesso che non sono nemmeno sicuro che quelle parole vengano da Palazzo Chigi, invece che dal Quirinale: ma poco importa, chiunque lo abbia pensato è stato un bene che quel passaggio sia stato pronunciato in Senato.
 E cosa è successo da quel momento in poi? Rumore. Tantissimo rumore, di tutti i tipi, pur di non confrontarsi nel merito di idee un po’ più precise sul progetto di futuro che si ha in mente. Certo, qualcuno ha tirato fuori le solite proposte del proprio partito: citando in ordine sparso, diminuzione delle tasse, investimenti pubblici, disinnesco dell’aumento dell’IVA, stato di diritto, gestione diversa della questione immigrazione (ahi noi, spesso confusa con il tema dei salvataggi in mare, che ne sono in realtà solo la parte più tristemente visibile e politicamente sfruttata), redistribuzione, rapporto con l’Europa e così via. Ma sono nomi vuoti, che presi così significano tutto e quindi niente, e che oltretutto sono gettati nel dibattito come esche in una vasca di pirañas: per breve tempo tutto è concentrato lì, si spolpano i brandelli e poi si resta immobili ad aspettare la prossima esca.

Nessuno pensa che sia il caso di approfondire le questioni, i titoli sono più che sufficienti, e l’idea di futuro che esce da queste proposte non è nebulosa: è inesistente. Di futuro non parla nessuno, nemmeno per cenni; tutto riguarda l’immediato, i prossimi sei mesi sembrano un orizzonte infinito per chi sta giocando le sue carte per andare alle elezioni (il centrodestra al completo, almeno a parole), al governo (PD e M5S, forse anche LeU) o restare all’opposizione (+Europa). 
Immaginare (o addirittura pretendere!) le elezioni come esito della crisi, senza avere uno straccio di programma ma vaghe promesse, iniziative di bandiera o alti princìpi, buoni solo per essere declamati, dovrebbe essere considerato dall’elettorato come una presa in giro a cui sottrarsi (anche perché organizzare le elezioni costa un sacco di soldi, e non è detto che produca vincitori).

Ma pretendere di costruire un governo sulle stesse basi è forse persino più grave, soprattutto quando si pretende di farlo in nome della “responsabilità”.
Ma allora sorge spontanea una domanda: il problema è davvero il rumore di fondo, che ha impedito di ascoltare quelle proposte (che ogni politico dovrebbe avere) e discuterle formando un piano coerente del futuro che questo Paese immagina per sé e i suoi figli? Oppure è un problema di contenuti che mancano, e di modi di parlarne che non sono in grado di cambiare nulla nell’opinione pubblica, e il rumore di fondo prova a coprire quest’assenza? Credo non sfugga a nessuno che se fosse vera la seconda risposta la crisi della nostra classe politica sarebbe persino peggiore di quello che già sembra. E non sarà certo né un nuovo governo né un passaggio elettorale a risolverla: semmai potrebbero aggravarla ulteriormente, in modi diversi ma forse ugualmente devastanti.