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"I popoli in Europa non sono mai stati in conflitto come oggi". Nel catalogo delle verità prêt-à-porter della Lega non poteva mancare quella che ribalta il rapporto tra l’Europa e la guerra, tra la fine della felicità dei popoli del continente e la dittatura di quell’intransigente super ego politico-militare rappresentato dall’integrazione degli stati europei nell’Ue e dell’Ue nella Nato.

Quando Matteo Salvini sul prato di Pontida pronuncia questa frase apparentemente incredibile, dopo tre quarti di secolo di pace e di libertà politica (prima a ovest e poi ad est), non regala al suo popolo la rivelazione di una verità sconosciuta, ma la liberazione da una frustrazione e da un senso di colpa sempre più malcelati e insopportabili.

Salvini non ha alcun interesse a riscrivere la storia, che al di là della retorica i sovranisti usano come un alibi del presente: non una radice di appartenenza, ma una giustificazione di esistenza. Salvini ha interesse ad affrancare gli elettori dalla schiavitù della responsabilità di quello che sono, di quello che vogliono e di quello che fanno e dalle conseguenze di tutto questo.

Se l’Italia cresce meno degli altri Paesi europei; se i lavoratori e le imprese italiane sono (mediamente) meno competitive e meno produttive di quelle straniere; se un giovane su quattro non studia, né lavora, né cerca lavoro, ma bivacca nella cuccia di casa a spese di papà e mammà… Non è colpa sua, non è colpa loro, non è colpa nostra. È colpa di Soros e dell’euro, della Merkel e di Bruxelles, del Fiscal Compact e delle ONG.

Salvini, che era con Borghezio il leghista più volgarmente anti-terrone (“senti che puzza scappano anche i cani, sono arrivati i napoletani”) è anche riuscito nell’impresa di reclutare milioni di meridionali concedendo loro che la vera emergenza sicurezza, al Sud, sono i “clandestini” afro-muslim schiavizzati dai caporali. E lo ha fatto giurando su un rosario, usato come nei riti di iniziazione mafiosi si usano le effigi dei santi per raccogliere il giuramento dell’affiliato.

Salvini non è il certo il primo, né il solo leader politico a fondare il proprio successo sul ribaltamento dell’auto-disistima in orgoglio, della paura in aggressività, del senso di impotenza in un culto del potere in grado non solo di riscattare, ma di “assolvere” i suoi seguaci.

Da Trump a Putin, passando per tutte le declinazioni europee di questo fenomeno gli elettori tendono a premiare i processi di rimozione collettiva delle sfide morali e materiali che i popoli dell’ex primo mondo devono affrontare di fronte ai rivolgimenti globali. La democrazia è diventata in tutto l’Occidente un pentolone in cui continua a bollire un subconscio collettivo sempre più alienato e insieme sempre più “liberato”, in cui paura e incertezza divengono tout court sentimento di ingiustizia e di sfruttamento, da riparare prontamente, anche con le cattive, poiché le buone maniere, le liturgie democratiche e perfino le regole costituzionali appaiono funzionali all’asservimento del popolo e all’interesse dei cosiddetti invasori.

La "deculturizzazione" della storia (che può essere reinventata a piacere) e quello della politica (che può essere ridotta ad un “noi contro loro” universale, in cui si mischiano disordinatamente tutte le suggestioni totalitarie del secolo breve) trasforma il disagio e il conflitto in una sorta di urlo collettivo, con contenuti meramente psicologici e neppure più ideologici, e quindi per definizione incontenibili, ma manipolabili. La paura “elementare” non è ancora un’istanza politica, proprio perché non ha alcuna coscienza di sé e non è una richiesta di nulla, se non di smettere di avere paura. Il sovranismo è l’eroina della paura e la cocaina dell’identità. La nazione è il rifugio, non la cura della malattia dell’anima occidentale.

Ieri a Pontida si è scritta una pagina non secondaria di questo libro collettivo dell’odio democratico, di cui l’Italia non è la sola autrice, ma di cui rischia, per l’ennesima volta, di essere la più vergognosamente eccellente.

@carmelopalma