Matteo Renzi ha aperto, dalle pagine del suo sito, una discussione pubblica sulle linee guida che dovrebbero ispirare il suo JobsAct, ovvero la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Qui il testo integrale oggetto del dibattito. Strade partecipa alla discussione, attraverso i suoi collaboratori più esperti. Oggi presentiamo le osservazioni di Carmelo Palma. Qui e qui gli interventi di Mario Seminerio e Riccardo Puglisi.

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La diatriba sulla natura "novecentesca" del (modello di) Job Act proposto dal segretario del PD è anch'essa, diciamolo, molto "novecentesca". Sacconi, che guida le mosse del partito di Alfano sul tema e ne anima il riformismo ora radicale, è stato anche il Ministro che ha teorizzato per quasi un decennio, sui temi del lavoro e del welfare, interventi esclusivamente al margine e l'uso efficiente dei soli spazi che l'evoluzione del mercato del lavoro apriva a valle della costruzione ideologica racchiusa nello Statuto dei lavoratori. Per riformare le pensioni e toccare l'articolo 18 è dovuta arrivare la Fornero, perché per Sacconi prima non era né utile, né necessario. Diciamo allora che è molto "novecentesco" anche questo essere rivoluzionari coi governi e le maggioranze degli altri?

Ora che però anche il NCD mette sul tavolo le proprie carte (Scelta Civica l'ha già fatto da un pezzo), si aprirà la discussione di merito. Renzi dice che la sua è una proposta aperta (e invero - ma questo Renzi non lo dice - anche abbastanza indeterminata e vuota, e quindi da determinare e riempire di contenuti concreti). È logico quindi partecipare al gioco della discussione lealmente, ragionando dell'adeguatezza degli strumenti alla natura dei fini, cioè la costruzione di un mercato del lavoro più dinamico sia sul fronte della domanda che dell'offerta, attraverso la modernizzazione delle sue infrastrutture normative e materiali e dei suoi incentivi fiscali. Con questo spirito di gioco tutt'altro che antipatizzante, solleviamo tre interrogativi sull'apparente riformismo a metà del segretario del PD.

1. Nelle linee guida del suo Job Act, sul fronte caldo dei contratti Renzi propone di fatto la liberalizzazione del contratto a tempo determinato fino a due/tre anni. Contratto di inserimento a tutele crescenti è solo il nome "politicamente corretto" di una formula, che consente di fatto all'impresa di azzerare fino a 24/36 mesi i costi di uscita. Questa proposta, insieme a quella di riservare gli incentivi fiscali alle sole imprese (c'è il taglio dell'Irap, non quello dell'Irpef), rende la proposta di Renzi molto coerente con le richieste del sistema imprenditoriale (la cosa in sé è tutt'altro che negativa), ma meno coerente con l'esigenza di cambiare strutturalmente il funzionamento del mercato del lavoro e realizzare il teoricamente necessario "regime change". Ironicamente, si potrebbe dire che le proposte di Renzi sono più vicine a quelle (di destra?) del Sacconi pre-rivoluzionario che a quelle (di sinistra?) avanzate per anni da Pietro Ichino?

2. Il Ministro Giovannini ha eccepito l'eccessivo costo, peraltro non stimato, della proposta di Renzi. In realtà, non è neppure chiaro a chi costerebbe. All'erario o ai privati (lavoratori e imprese)? Da questo punto di vista, per il segretario del PD non sarebbe il caso di rendere esplicito che il nuovo sistema, per funzionare in modo sostenibile, comporta un crescente costo assicurativo - per le imprese dal rischio licenziamento e per i lavoratori dal rischio disoccupazione - e che le risorse necessarie non potranno che provenire o da un taglio del cuneo fiscale e contributivo sul lavoro (e lì c'è un problema non banale di copertura) o, di fatto, da un taglio dei redditi reali (e lì c'è un problema non banale di sostenibilità, soprattutto verso il basso)? Inoltre, proporre un meccanismo universale di garanzia che già c'è (l'Aspi), ma che non copre tutti perché per funzionare decentemente e andare a regime nei tempi previsti comporterebbe l'utilizzo delle risorse oggi destinate alla cassa in deroga, implica che si dica e faccia qualcosa su questo fronte, anche se significa sfidare insieme sindacati e Confindustria, no?

3. Il sistema di collocamento pubblico (centri per l'impiego) oggi non esiste, né credibilmente può esistere, se non sulla carta. Sovrapporgli una agenzia federale che ne coordini gli indirizzi e gli interventi significa sommare inesistenza a inesistenza. Perché l'incontro tra domanda e offerta di lavoro funzioni, serve un vero mercato non solo del lavoro, ma della disoccupazione e un sistema di incentivi che renda conveniente anche per gli operatori professionali coinvolti che la ricollocazione dei disoccupati avvenga in tempi rapidi e con successo. Perché qualcun altro, oltre al lavoratore a spasso, possa perdere qualcosa da una disoccupazione di lunga o lunghissima durata, questi deve anche poterci guadagnare. Questa rivoluzione, al pari di quella per il superamento della tutela reale del posto di lavoro, è ideologicamente incompatibile con la vulgata "benecomunista", perché postula che sia il mercato e non lo Stato (con le sue leggi, le sue aziende, i suoi uffici, i suoi giudici...) a garantire meglio i diritti (a partire da quello al lavoro e ai servizi pubblici essenziali) e a promuovere l'equità e la mobilità sociale. Ma non è forse questa la "madre di tutte le battaglie" a cui è chiamato il PD blairiano di Renzi?