Matteo Renzi ha aperto, dalle pagine del suo sito, una discussione pubblica sulle linee guida che dovrebbero ispirare il suo JobsAct, ovvero la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Qui il testo integrale oggetto del dibattito. Strade partecipa alla discussione, attraverso i suoi collaboratori più esperti. Oggi presentiamo le osservazioni di Riccardo Puglisi. A questo link quelle di Mario Seminerio, pubblicate ieri.

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L’esperienza accademica insegna: per fornire spunti critici sulla presentazione di qualcheduno, bisogna iniziare con qualche lode sensata, che mostri simpatia e che apra la mente all’accoglimento degli spunti critici successivi. Ebbene, la prima cosa che si può apprezzare nel Jobs Act presentato da Matteo Renzi sta nella capacità di influire, se non determinare, l’agenda politica del paese, cioè l’insieme dei temi che l’opinione pubblica ritiene maggiormente rilevanti. Renzi offre alla discussione un documento aperto sulle regole del mercato del lavoro e sulle condizioni di contorno necessarie perché sia possibile ridurre il tasso di disoccupazione del paese. Per quasi due decenni è stato Berlusconi a dettare l’agenda: evviva il cambiamento, se non altro per un gusto della varietà.

Le implicazioni di un documento aperto sono due: in primis molti osservatori e privati cittadini sono incentivati a fornire integrazioni, commenti e critiche (me compreso): ciò rende più saliente il documento originale stesso, in quanto molti dei commenti ed integrazioni –come quelli di Pietro IchinoCarlo Stagnaro- sono degni di notizia, e questa notiziabilità mantiene elevata l’attenzione sul tema prescelto, secondo le linee dettate dal documento originale. Il secondo vantaggio è di carattere più marcatamente politico: un documento aperto è come una proposta ancora negoziabile, ricca di elementi da completare, per cui altri attori politici rilevanti possono dire la loro ed eventualmente spingere la proposta finale verso la direzione a loro più congeniale. Ichino evidenzia un punto cruciale nel documento in cui questo secondo aspetto strategico (“ambiguità per imbarcare consensi”) emerge, o perlomeno –dato che di ambiguità si tratta- appare in controluce: quando Renzi accenna ad un “processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. L’idea piuttosto condivisibile del contratto a tutele crescenti viene preceduta dall’espressione vagamente sindacalese del “processo verso”: un “processo verso” indica certamente una direzione, ma c’è spazio per pause, ripensamenti e cambi di rotta. A questo proposito, senza arrivare ad attribuire lo stesso ruolo di “bacio della morte” che proverbialmente si attribuisce agli endorsement politici di Eugenio Scalfari, se fossi Renzi baderei con attenzione alle aperture di Susanna Camusso, segretario della CGIL, a proposito del Jobs Act stesso. Mi piace ragionare in termini di teoria dei giochi: Renzi deve tenere assieme il PD dove la componente statalista fassiniana e cigiellina è tutto tranne che morta, e un compromesso con questa parte su temi del lavoro potrebbe essere una strategia intelligente, e dunque l’espressione “processo verso” potrebbe essere una tattica verbale coerente con tale strategia. Compromesso sì ma snaturamento no (si spera). Commentatori fuori dal PD come Ichino, Stagnaro e il sottoscritto non possono non rilevare in termini critici questo posizionamento strategico, pur comprendondolo e apprezzando –come dicevo sopra- il progetto stesso di influenzare l’agenda politica da parte di Renzi.

Sui contenuti specifici non si possono non apprezzare alcuni spunti nella parte relativa alle condizioni di contorno (il “sistema”) come –e qui concordo in larga parte con Stagnaro- l’idea di utilizzare i risparmi della spesa pubblica corrente per ridurre il carico fiscale sul lavoro (anche se i dettagli operativi mancano), l’eliminazione dell’obbligo di iscrizione alle Camere di Commercio per le imprese, e l’abolizione dei contratti a tempo indeterminato per i dirigenti pubblici. Aggiungo che una parte dei risparmi di spesa dovrebbe derivare da ulteriori interventi sulle pensioni retributive, ma mi sembra di capire che in questa fase Renzi abbia più bisogno dell’appoggio dei sindacati che di Davide Serra. Sulla politica industriale sono un po’ meno scettico di Stagnaro, ma resto nel campo dello scetticismo: il rischio è che la politica industriale sia un’illusione di indirizzamento virtuoso dell’economia, che si traduce invece in una mala allocazione delle risorse, con ulteriore spreco di denari pubblici. Nella parte relativa alle “regole” mi sento invece più vicino alle posizioni di Ichino, nel momento in cui sottolinea il fatto che Renzi sembra dimenticarsi del lavoro fatto da altri, in particolare l’assicurazione universale contro la disoccupazione per il lavoro dipendente è già stata introdotta dalla legge Fornero (n. 92 del 28 giugno 2012), e le proposte di legge formulate da Ichino stesso in tema di formazione professionale.

Aggiungo poi una nota ulteriore a proposito dell’accenno finale nel documento di Renzi alla ricchezza finanziaria delle famiglie italiane, vicina ad un importo di 3800 miliardi di euro: secondo Renzi il timore del futuro induce gli italiani a tesaurizzare questa ricchezza in una proporzione eccessiva, cioè a non investirla a sufficienza –mi sembra di capire- in capitale di rischio o di debito delle imprese, o in nuovi progetti imprenditoriali. Concordo con questa impostazione di fondo, ma forse un tema ancora più importante è quello della ricchezza immobiliare, che (i) è pari almeno al doppio della ricchezza finanziaria, (ii) sicuramente è diminuita negli ultimi anni a motivo del calo delle quotazioni, ma (iii) resta eccessiva: gli italiani devono investire di meno negli immobili e di più nelle imprese. Si tratta di una trasformazione che deve essere accompagnata dal punto di vista fiscale, ad esempio attraverso una diminuzione delle imposte sui trasferimenti, ma che comunque rappresenta un altro fronte di innovazione che sta al contorno del tema principale del lavoro. E se saranno gli stranieri a comprare gli immobili italiani, allora gli italiani avranno più risorse per investire in capitale di rischio. Perché no?