Quebec City, l'assassino è un pezzo del 'nostro' Occidente
Istituzioni ed economia
Del canadese Alexandre Bissonnette, accusato dell'eccidio nella moschea di Quebec City, dovremmo onestamente pensare, come di tanti volontari del jihadismo fai-da-te, che il detonatore della violenza stia nel rapporto tra la sua debolezza psichica e la forza 'redentrice' del castigo inferto agli infedeli o agli invasori, tra l'alienazione dell'assassino e l'illusione di riappropriarsi di un'identità purchessia attraverso il delitto.
Anche di Tommy Mair, l’uomo che uccise Jo Cox a pochi giorni dal referendum sulla Brexit, si può supporre che l'affiliazione fanatica al "Britain first!" e la violenza contro un'eroina della causa del Remain fosse più psicogena che, in senso stretto, ideologica. Eppure anche in questi casi, come nel caso degli europei e occidentali fanatizzati via web e militanti della causa del Califfo, nel fenomeno sociale e criminale che essi rappresentano, è impossibile rimuovere il legame tra psicologia e ideologia, tra la vulnerabilità personale dei violenti e la natura intrinsecamente violenta del messaggio che li conquista.
Da anni discutiamo, con un tono che oscilla tra la chiacchiera e la pretesa scientificità teologica, della natura intrinsecamente o estrinsecamente islamica della violenza jihadista e della legittima "rappresentatività" da parte dei tagliagole dell'Isis, e prima di Al-Qaeda di quel miliardo di credenti in Allah e nel suo Profeta e soprattutto, di quei milioni di musulmani che vivono e lavorano in Occidente e condividono la nostra vita senza condividere la nostra identità religiosa, né, dal punto di vista storico, la rivoluzione illuminista che ha "convertito" anche il cristianesimo ai valori non negoziabili della libertà religiosa e della laicità politica.
In modo razionale, non scontatamente auto-colpevolistico, ma neppure elusivo, è il caso che si inizi a riflettere anche sul rapporto tra la violenza etno-nazionalista, che si riaffaccia sul palcoscenico della storia e inizia a mietere le sue prime (e presumibilmente non ultime) vittime e la forza dell'ideologia etno-nazionalista che sta connotando in modo profondo la democrazia occidentale e che in queste ore ha fatto il suo ingresso trionfale alla Casa Bianca. La "rivolta dell'uomo bianco" e l'ossessione nativista che i nuovi equilibri demografici innescano e tanti apprendisti stregoni fomentano, ma non controllano, rappresentano uno straordinario brodo di coltura di violenze private e improvvisate, un prevedibile attivatore di carneficine o contro-carneficine "religiose", un rumore di fondo che può farsi in un niente frastuono nazisteggiante.
L'Occidente ha molte più difese e antidoti contro questo veleno rispetto al mondo islamico, in cui, di fatto, con rare e sempre più limitate eccezioni, la "politica islamica" coincide pressoché ovunque con l'islamismo politico e la rivolta antimodernista. Ma anche l'Occidente, che ha una società evoluta, sistemi politici pluralisti, e istituzioni solide e incompatibili con sultanati politico-religiosi, è bene che ammetta che un veleno antico è tornato a scorrere nelle sue vene e che il "discorso dell'odio" è tornato a risuonare nelle sue piazze e ad armare la frustrazione di alcune anime perse; e queste potrebbero montare di numero, di peso e di offensività, uscendo dal perimetro della psico-patologia individuale per sfociare nella patologia politica di massa.
Tommy Mair e Alexandre Bissonnette appartengono purtroppo all'album di famiglia del "nostro" Occidente, sono un pezzo del nostro possibile futuro.