tronca

Dalla fine della Prima Repubblica ad oggi un solo filo rosso ha legato tutti i fenomeni politicamente vincenti, ed è quello cosiddetto "antipolitico". Un filo rosso che è l'altra faccia - non la reazione o il rimedio - al default istituzionale e di governo di tutti i "nuovismi" che si sono succeduti nell'ultimo trentennio.

L'egemonia politica dell'antipolitica mostra diverse declinazioni, convergenti in alcuni connotati di fondo: la denuncia del carattere sovrastrutturale e parassitario della rappresentanza, la pretesa di superare il sistema dei partiti, la predilezione per forme di espressione e decisione democraticamente dirette, l'investitura di leadership personali forti e asseritamente vergini, il rifiuto della complessità come dimensione costitutiva dei problemi e delle soluzioni di governo e un'interpretazione meramente "criminologica" delle cause della crisi e del declino italiano.

Dalla Lega dei primi anni '80 al M5S di oggi questi caratteri si sono conservati pressoché intatti. Con la forza dell'antipolitica hanno dovuto fare i conti anche le leadership politiche più istituzionali - Berlusconi, Prodi e infine Renzi - per lo più piegandosi ad essa anche sotto la spinta di una pubblicistica - giornalistica e culturale, alta e bassa - che ha fatto della Casta o per meglio dire della lotta contro la Casta la metafora dello sforzo palingenetico richiesto all'Italia per rispondere al rischio del fallimento economico e civile.

L'antipolitica porta con sé un opzione preferenziale per le soluzioni neutrali - cioè non concepite né governate attraverso i tradizionali processi politico-istituzionali - e quindi teoricamente tecniche e predilige l'affidamento del governo a professionisti selezionati in base alle competenze (al curriculum) e non all'adesione a un progetto sospetto di parzialità - quando non di peggio - per il solo fatto di essere politico. Basti pensare al M5S che per Roma dice di volere ricorrere a un bando pubblico per la selezione degli assessori. Il presupposto culturale dell'antipolitica è infatti che la politica in quanto tale - quella dei partiti, delle organizzazioni politiche e della rappresentanza delegata - sia una forma di dissimulazione dell'interesse privato (o criminale) dei politici professionisti, nonché di sequestro della volontà e dell'interesse del popolo: tutti i "sacrifici", di qualunque tipo, richiesti agli elettori sarebbero il prezzo della corruzione, destinati a scomparire con la fine della politica.

È questa la ragione (solo apparentemente paradossale) per cui il principale nemico di tutta l'antipolitica italiana, di qualunque colore e posizionamento, sia stato recentemente proprio il governo cosiddetto tecnico di Mario Monti, che ha smentito platealmente l'assunto che per rimettere in piedi l'Italia bastasse mettere in galera i cattivi e cancellare i privilegi della Casta. Monti era infatti estraneo, o per meglio dire "postumo", a un sistema politico defunto, ma tutt'altro che consonante con l'idea che le scelte di governo fossero "auto-evidenti" e non dipendenti da una scelta e di un opzione politica di fondo, che era nel suo caso quella europeista, bisognosa di un sostegno organizzato e trasversale.

L'egemonia culturale dell'antipolitica è oggi incontrastata e politicamente assoluta, come si evince anche dalle scelte di quanti - nel governo e nel PD - provano a tenere in piedi un simulacro di soggetto politico e resistere all'onda anomala del "voto-contro", cedendo però spazio ad un'idea tecno-prefettizia o puramente amministrativa del governo. Il fatto è però che se per fermare Grillo ci si nasconde dietro i tecnici o altri salvatori apolitici, il rischio è di non fermarlo affatto o di cedergli molto presto la staffetta. L'antipolitica in doppio petto non funziona.

@carmelopalma